1959: il Concilio non fa notizia. Ma poi tutto cambia

Franco Lever al convegno “Ripensare la Comunicazione” ha analizzato l'evoluzione del termine “comunicazione” e come la Chiesa, attraverso il Concilio, abbia contribuito a questo sviluppo

Ripensare la comunicazione è una sfida che si impone anche alla Chiesa, è questo il tema della relazione presentata da Franco Lever al convegno per il XXV anniversario della Facoltà di Scienze della Comunicazione sociale dell’Università Pontificia Salesiana. Lever, che è stato tra i fondatori della facoltà ed è ora docente emerito, ha presentato una panoramica abbastanza ampia sulla concezione etimologica della parola “comunicazione”, e come questa sia evoluta nel corso del tempo, ma il suo intervento si è concentrato soprattutto su come la comunicazione si sia messa in relazione al Concilio Vaticano II.


Lever ha presentato così un caso del tutto particolare di comunicazione, ovvero come l’Osservatore Romano, per certi versi la fonte più vicina alla Santa Sede, ha trattato il Concilio Vaticano II. Il significato del termine “comunicazione”, del resto, è cambiato a partire dagli anni 60-70 del secolo scorso, gli anni del post-concilio per la Chiesa, ma va fatto un passo indietro. In questo contesto degli anni ’70 infatti si è già inserita la rivoluzione comunicativa della Chiesa, che parte però almeno un decennio prima: siamo nel 1959 e il 25 gennaio, a soli tre mesi dalla sua elezione al soglio pontificio, papa Giovanni XXIII annuncia l’indizione di un concilio ecumenico, insieme all’annuncio di un sinodo della diocesi di Roma e dell’aggiornamento del Codice di Diritto Canonico.


Il giornale del Vaticano dà alla notizia uno spazio marginale, lasciandole lo stesso rilievo delle altre due decisioni del Papa. Sembra incredibile, col senno del poi e degli effetti che tale iniziativa ha avuto nella vita della Chiesa, ma non vi è menzione del concilio universale in nessun titolo del 26 gennaio 1959. C’è un accenno nel sottotitolo e un trafiletto in basso a destra (come si può notare dalla foto), e nei giorni successivi la situazione non cambia. Bisogna attendere il 1 novembre del 1959 per una prima spiegazione su cosa sia questo concilio. La domanda che Lever ha posto è una provocazione: “Sono stati i giornalisti a sollecitare la Chiesa ad una spiegazione più precisa o viceversa?” Il Concilio Vaticano II, in definitiva è stato accompagnato male dall’istituzione religiosa e presentato addirittura peggio dalla stampa. Questa è la comunicazione della Chiesa negli anni ’60. Nel frattempo, il mondo sta cambiando e con esso anche il concetto di comunicazione e la sua area semantica. Anche la Chiesa apre gli occhi e comincia a ripensare – a proposito del titolo di tutto il convegno – la sua di comunicazione.



In questa nuova pentecoste, il Concilio rappresenterà la prima pietra del cambiamento. In tutti i documenti redatti dai padri conciliari, in 152.354 parole, il termine “comunicazione” e tutte le sue derivazioni è presente 34 volte. Troppo poche, ma secondo Lever se andassimo a fare una analisi più approfondita cogliendo i termini collegati alla comunicazione, le possibilità aumenterebbero. Comunione è citata 118 volte, comunità 203 volte, donare 95, partecipazione 163, relazione 48. Così Lever sfata anche il mito che «durante il concilio, il Vaticano non si è interessato di comunicazione». «Anche se non esplicitamente», continua infatti, «il Concilio è pieno di riferimenti teorici e concettuali a questo tema».


Va compreso il contesto. Per la chiesa “comunicazione”, almeno da un punto di vista strettamente terminologico, è una parola nuova. Il passo avanti però, che Giovanni XXIII prima e Paolo VI poi portano avanti con il concilio ecumenico è di quelli storici. La Chiesa apre le porte al mondo. Rilancia il ruolo dei laici, rimoderna la liturgia, si avvicina al popolo di Dio. Comunica e abbraccia finalmente l’internazionalizzazione della religione cristiano-cattolica, sperimentando una nuova cultura dell’incontro. Anche i media risentono di questa influenza positiva, cambiando il loro ruolo: non più estensori, ma collaboratori, parte integrante di un Concilio vissuto da dentro. Lever quindi ci fa riflettere sulla domanda principale del suo intervento: Si può dire allora che i cambiamenti epocali che hanno spinto la comunicazione verso la modernità siano anche figli del Concilio Vaticano II? L’analisi del dizionario Zingarelli, potrebbe essere un’ulteriore conferma a tutto questo. Il termine “comunicazione” nella prima edizione del 1922 è inserito all’interno del più ampio lemma “comunicare”. Col passare degli anni si arriva sempre di più ad una concezione semantica di comunicazione relativa alla mobilità, al trasporto. Comunicazione come mezzo, come passaggio.


Fino al 1965 la voce sarà composta di 60 parole, poi ci sarà un cambio radicale. E questa strada epistemologica del concetto di comunicazione va necessariamente ad incrociarsi con il percorso del Concilio Vaticano II, che si conclude proprio quell’anno. Non può essere solo un caso quindi il cambiamento concettuale che si avrà dalla seconda metà degli anni 60 in poi. Il significato, che era fondamentale nelle prime quattro edizioni (collegamento, comunicazioni ferroviarie, stradali…), giunge ad una astrazione più universale. Il passaggio è quindi quello da communications (insieme delle comunicazioni tecniche) a communication (dell’essere umano). Il Concilio si è appena concluso e già si vedono i primi frutti. Il processo è partito, la comunicazione sarà sempre più al centro della vita relazionale dell’uomo. L’impegno per tutti dunque secondo Lever è quello di “ripensare la comunicazione anche nella Chiesa, ma partendo dall’uomo, dalle sue relazioni, dal tessuto sociale che egli vive”. Solo così Chiesa e mezzi di comunicazione possono interagire e vivere in convergenza. E riflettendo oggi, nei giorni del vulcano comunicativo Papa Francesco, sui limiti della comunicazione nella Chiesa del pre-concilio, possiamo renderci conto che di strada ne è stata fatta veramente tanta.  



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