20 Feb 2025

Dopo Sanremo: siamo ancora liberi di scrivere canzoni?

Qualche riflessione a freddo sulla 75ª edizione del Festival della canzone italiana. Forse si può anche essere non troppo severi. Ma in nome della passione per la musica, non si possono chiudere gli occhi. E le orecchie…

Sanremo sembra confermarsi come l’ennesima occasione per parlare di tutto e per ritagliarsi una vetrina temporanea. Tranne che per parlare di musica. Il prezzo da pagare? L’elemento fondamentale, ovvero la musica stessa, che viene confezionata ad arte, snaturata e piegata alle logiche implacabili dello spettacolo, del branding, della politica e di molto altro ancora.
Nulla di nuovo sotto il sole: l’acqua calda è stata scoperta ai tempi del buon Elvis, ma pare che il limite alle ustioni non sia mai stato fissato. Non stiamo rivelando verità inedite quando ricordiamo che Sanremo si regge su un duplice pilastro: da un lato lo spettacolo, necessario a un’azienda che deve far quadrare i conti a fine anno, dall’altro un colosso economico che si alimenta grazie a sponsor onnipresenti (anche quest’anno, impossibile ignorare la caparbia Suzuki, Generali o l’indomabile Veralab, solo per citarne alcuni).

Ma torniamo alla musica, dai, perché di musica si dovrebbe parlare (forse la vera forma di resistenza nel farlo sta proprio in questo).

Il podio? Una piccola crepa nel sistema

Sul fronte strategico e imprenditoriale, a trionfare sono state le due menti dietro i primi due classificati: Marta Donà, manager di Olly (e già manager degli artisti delle scorse edizioni), e Caterina Caselli (Sugar Music), deus ex machina della scalata di Lucio Corsi. Dal punto di vista artistico, il successo appartiene a chi macina numeri: Olly, per esempio, registra da mesi spettacoli sold out e aveva già un tour fissato per il 2026 prima ancora di calcare il palco di Sanremo (anche se Tutta Vita, il suo album, riporta una scrittura che non merita così tanto snobismo). Lui è bravo, performa bene, è generoso e convincente e quindi credibile, che è in assoluto la cosa più importante. Dall’altro lato, ha vinto anche Lucio Corsi che, favolistico e fumettistico come i quadri naif, non porta nulla di realmente inedito, ma rappresenta comunque una deviazione dal canone attuale: un’incursione che sa di liberazione, di ribellione o forse solo di ostentata semplicità. Sostanzialmente Lucio Corsi è comunque un insegnamento: si è costruito da anni il suo pubblico pezzo a pezzo creando i presupposti perché questo pubblico si fidi di lui. E la discografia ovviamente, è arrivata in ritardo. Ma meglio tardi…

Brunori Sas ha perso un’occasione. Si percepisce immediatamente che in questo momento ha la pancia piena e per ora non ha più quella fame di scrittura presente in A casa tutto bene del 2017 o lo “sfortunato” prepandemico Cip! uscito a ridosso a gennaio del 2020. Le strofe del brano in gara suonano troppo vintage, si presenta come in stallo su un cantautorato eccessivamente retrò, seppure di Penna. Ininfluenti i commenti sul paragone con De Gregori, specie se arrivano dai non addetti ai lavori.

Le canzoni: eppure ci si aspettava di più

Il podio, formato interamente da cantautori, è una piccola crepa nel sistema, un segnale di incoraggiamento. Ma attenzione: non ha vinto la canzone migliore. Anzi, quest’anno il Festival non ha offerto pezzi memorabili. Mancavano brani dal forte impatto emotivo come Fai Rumore o Brividi degli anni passati. Ma se la linguistica dice che non si possono formulare pensieri se non hai parole per esprimerli, allora è chiaro che la parola più citata all’interno dei testi è “amore”.  Se questo è il massimo che la scuola autorale italiana è riuscita a partorire in un anno, forse è il momento di cercare un’alternativa.

I testi: un monopolio incorregibile

Anche quest’anno, abbiamo assistito alla solita spartizione delle canzoni in gara tra pochi autori “di fiducia”. Anche nel 2025, oltre il 65% dei brani presentati porta la firma di una cerchia ristretta di professionisti, tra cui spiccano Federica Abbate, Davide Simonetta, Paolo Antonacci e Davide Petrella. Questi nomi compaiono con una regolarità quasi ossessiva, marchiando a fuoco i successi commerciali di ieri e di oggi. Caso emblematico? “Incoscienti giovani” di Achille Lauro, ennesimo prodotto del duo Simonetta-Antonacci, che da anni tesse le trame delle canzoni sanremesi. Stesso copione per “La tana del granchio” di Bresh, opera di mani già abbondantemente impegnate a monopolizzare il Festival nelle precedenti edizioni. Ma quante teste sono davvero necessarie per scrivere il testo di una canzone? Se lo è chiesto anche Kekko dei Modà (che ormai è chiaro a tutti non essere il suo cognome) in un’intervista a Radio 24, con la consapevolezza malinconica del declino del proprio progetto musicale. Un declino che, ironia della sorte, è proprio il risultato di questo meccanismo serrato di accentramento autorale. Questo oligopolio soffoca la possibilità per i giovani autori di emergere e trasforma il panorama musicale in un paesaggio monocorde, dove i brani sembrano fotocopie l’uno dell’altro, più orientati a soddisfare le esigenze commerciali che a raccontare il vissuto autentico degli artisti.

Il sistema del voto: e c’è chi vorrebbe esportarlo

Un nuovo meccanismo, tutt’altro che semplice da sintetizzare, introdotto dalla Rai con l’ambizioso intento di rendere la vittoria «più meritocratica» – così ha ribadito in conferenza stampa il vicedirettore dell’intrattenimento Prime Time, Claudio Fasulo. Un sistema che, almeno sulla carta, valuta l’intero percorso degli artisti fin dalla prima serata, ma che curiosamente isola la serata delle cover, come se fosse un’anomalia da scorporare. Il tutto per scongiurare le polemiche dello scorso anno, quando Geolier, dominatore della serata dei duetti, si ritrovò inspiegabilmente penalizzato nella finale. Non sappiamo se si tratta di un tentativo di correggere il tiro oppure è l’ennesima toppa su un sistema che fatica a convincere. E proprio qui si cela il dato più emblematico: se le regole di quest’anno fossero state applicate all’edizione precedente, a trionfare sarebbe stato Geolier, sovrano incontrastato del televoto (campano!) con oltre il 60% delle preferenze. Ma ecco la magia dei meccanismi sanremesi: quest’anno, a Olly è bastato racimolare un modesto 31,8%, forte dell’enorme bottino di voti accumulato nelle prime serate. Ancora una volta, il verdetto finale appare più come il risultato di una precisa architettura aritmetica, che di una reale adesione popolare.

Arte, creatività e psiche: come stanno insieme?

Cosa rimane, in tutto questo annaspare, dell’arte dello scrivere una canzone? La dinamica arrivista dell’industria musicale attuale non è solo artistica ma ha implicazioni economiche disastrose. La maggior parte delle royalties e dei proventi derivanti dai diritti d’autore va a un piccolo gruppo di autori, mentre gli artisti emergenti e indipendenti lottano per ottenere visibilità e risorse. Questo sistema accentua le disuguaglianze e limita la possibilità per nuovi talenti di costruire una carriera sostenibile nel mondo della musica a partire anche da Sanremo 2025. Alcuni brani che risuonano ad esempio nei club cantautorali delle grandi città italiane avrebbero lasciato un segno ben più profondo rispetto a ciò che abbiamo sentito all’Ariston, se solo avessero avuto la stessa esposizione e la stessa vetrina. Ma ormai il Festival si gioca altrove, tra outfit studiati a tavolino e strategie di FantaSanremo. Cè anche un danno psicologico più sottile e spesso ignorato: gli artisti, specialmente quelli giovani o alle prime esperienze, si trovano intrappolati in un sistema che nega loro la possibilità di esprimersi autenticamente. La creatività personale, che dovrebbe essere un processo psicologico liberatorio e un’occasione per dare voce ai propri vissuti interiori, viene sacrificata sull’altare delle logiche commerciali. Invece di sviluppare il proprio talento e identità artistica, i cantanti diventano semplici interpreti di brani costruiti a tavolino da altri. Questo non solo mina l’autostima degli artisti, ma crea un ambiente competitivo tossico, dove il valore individuale sembra misurato solo in termini di successo commerciale per una crescente condizione d’ansia d’aspettativa. La pressione per conformarsi a queste dinamiche può portare sicuramente a frustrazione e senso di inadeguatezza.

Sul finale: un po’ di coraggio, suvvia!

Sanremo, con il proprio bagaglio storico e il suo prestigio, ha ancora la possibilità di riconquistare il ruolo di autentico trampolino di lancio per nuovi talenti e di celebrare la creatività musicale nella sua forma più pura. Ma per farlo, serve un rinnovamento radicale, capace di smantellare un meccanismo economico apparentemente intoccabile. E si sa, quando si toccano gli interessi economici, tutto diventa improvvisamente più complesso. Diventa cruciale imporre un limite al numero di brani che ogni autore può presentare, incentivare la partecipazione di artisti e autori indipendenti e restituire spazio a canzoni che nascono da un sincero e personale processo creativo. Solo attraverso questa rivoluzione il Festival potrà davvero tornare a essere un palcoscenico in cui la musica, nella sua essenza più genuina, torna a occupare il centro della scena. Ma la speranza non è ancora perduta. Forse un giorno il Festival riuscirà a liberarsi dalle logiche di monopolio e a tornare a essere un vero spazio di inclusione, dove il talento artistico non sia soffocato dalla matematica del mercato e dove chi ha il coraggio di raccontarsi attraverso la propria musica trovi finalmente una voce autentica. Chissà, forse quel giorno arriverà.

Curiosità: una chicca

Vale la pena soffermarsi su un dettaglio curioso: il terzo classificato, Brunori Sas, con la sua etichetta Picicca, è colui che ha prodotto il primo album e i primi singoli di Lucio Corsi. Un cerchio che si chiude? O forse solo un gioco di specchi che si ripete.

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