In Italia sono sempre più numerosi i nuovi schiavi: persone vittime della tratta e dello sfruttamento. Nel mese di ottobre è stato presentato “Punto e a capo sulla tratta. 1° Rapporto di ricerca sulla tratta e il grave sfruttamento”, un’indagine realizzata dalla Caritas Italiana e dal Coordinamento nazionale delle comunità di accoglienza (Cnca), in collaborazione con il Gruppo Abele e l’Associazione On the Road. Per caprie meglio il fenomeno e come lo si può contrastare abbiamo intervistato Vincenzo Castelli, project manager del Cnca- Coordinamento Nazionale Comunità di Accoglienza e presidente dell’Associazione On the road e di NOVA onlus.
La prostituzione è la forma più visibile di sfruttamento, ma negli anni c’è stato un aumento esponenziale di persone trafficate in altri ambiti. Quali sono le situazioni più preoccupanti?
«Sicuramente il fenomeno della tratta si è ampliato molto, dal punto di vista della tipologia di sfruttamento. Noi che per tanti anni abbiamo lavorato solo sullo sfruttamento sessuale, oggi ci troviamo a lavorare in maniera più forte sullo sfruttamento lavorativo, sull’accattonaggio o altre forme di sfruttamento come l’economia illegale, i matrimoni combinati e la vendita di organi. Per quanto riguarda lo sfruttamento sessuale, siamo più attrezzati, in quanto interveniamo oramai da 15 anni, quindi abbiamo affinato strategie, modalità di lavoro e di intervento. Invece per quanto riguarda lo sfruttamento lavorativo si conosce ancora poco: siamo in possesso di dati ancora embrionali e secondo noi questo è il grande tema. Non ci sono moltissime realtà, moltissimi gruppi in Italia che lavorano su questo.»
Il tema centrale del rapporto “Punto e a capo sulla tratta” è la preoccupante normalizzazione del fenomeno, prima del tutto eccezionale. La crisi economica come ha influito sulla problematica?
«Come dato fenomenico, la crisi economica influisce molto: lavoro nero, lavoro forzato, lavori illegali… Tutto questo si lega e si trasforma in un mix che va sicuramente sciolto. Vanno poste modalità di lavoro che permettano di raggiungere una regolarità, con permessi di soggiorno e programmi di protezione sociale.»
Ci spiega in cosa potrebbe consistere il programma di protezione sociale?
«Il programma di protezione sociale prevede una presa in carico della persona vittima di tratta, identificata come tale da organizzazioni non profit iscritte a specifico registro sulla tratta o enti locali territoriali. Questo programma prevede l’acquisizione di un permesso di soggiorno per motivi umanitari, che viene rilasciato o come percorso sociale (ovvero senza una specifica denuncia da parte della vittima di tratta) o come percorso giudiziale (ovvero con denuncia alla magistratura). Tale programma prevede altresì: accoglienza residenziale, interventi di alfabetizzazione, orientamento, formazione professionale, inserimento lavorativo in aziende, eccetera, per promuovere al meglio il percorso di autonomia della vittima di tratta. Il tema dell’immigrazione per certi versi è centrale in tutto questo, soprattutto per quanto riguarda lo sfruttamento lavorativo.»
Come vi rapportate con questa nuova realtà?
«Lo sfruttamento lavorativo, come puoi capire bene, è molto difficile farlo in strada. Per cui si fa nei quartieri dove vivono gli immigrati che lavorano in nero, si fa nelle fabbriche dove ci sono immigrati, si fa soprattutto nell’agricoltura, nella pastorizia, nell’edilizia. Il problema però è che sfuggono moltissimi dati. Pensiamo per esempio alle badanti: quante sono vittime di tratta o di sfruttamento lavorativo tra quel milione e 750 mila badanti che sono in Italia? Grande domanda… bisogna avere gli strumenti per rispondere.»
L’Italia, come Stato, cosa fa per contrastare il fenomeno?
«In Italia non si investe per questi problemi. Abbiamo un budget di 7 milioni e 100 mila euro da dvidere per tutti i progetti e per tutti gli organismi, quando il tema della tratta muove miliardi di euro, a livello internazionale. Dunque noi facciamo una grande operazione sociale, per i mezzi che abbiamo a disposizione. Riusciamo ogni anno a tirar fuori un certo numero di persone: tra le 1650, come dice il Dipartimento per le pari opportunità, e le 2500, come risulta dai nostri dati. Significa che 2500 persone non sono in strada, non sono un pericolo pubblico, anzi diventano contribuenti, e dunque pagano le tasse. Perché tutte le persone cerchiamo di inserirle in aziende, di coinvolgerle in percorsi di occupazioni stabili. Abbiamo fatto un calcolo: se una persona vittima di tratta potrebbe costare allo Stato attorno a 20 mila euro all’anno (come altri target group equipollenti, vedasi minori stranieri non accompagnati, persone con dipendenze, rifugiati e richiedenti asilo, ecc.) e noi riusciamo ad accoglierne annualmente 2500, si può notare che c’è un grande risparmio per lo Stato, in relazione al budget messo a disposizione dallo stesso.Inoltre con questo tipo di intervento le persone, da vittime, diventano cittadine pienamente inserite nella collettività e nel sistema contribuente e lavorativo»
Un appello per responsabilizzare la comunità?
«Innanzitutto va creata una coscienza sociale, rispetto ai diritti delle persone, compresi quelli dei migranti. Il problema infatti è questo. Per quanto riguarda specificamente lo sfruttamento sessuale, c’è più coscienza, perché comunque siamo un popolo con forti radici cattoliche, e veniamo da certi principi, lo sfruttamento lavorativo ci sembra quasi come un minor male. Si pensa che la gente comunque lavora, fa qualcosa, intanto prende due soldi. Sì magari è sfruttato, sì, magari prende solo 10 euro al giorno… Ed è qui il problema: va creata una coscienza sociale proprio su questo. Una coscienza collettiva su tutto il tema della tratta, per far cogliere che effettivamente la mancanza di rispetto dei diritti degli altri, significa la mancanza di rispetto dei diritti di tutti. Tra l’altro, questo è un elemento che mi fa male, perché il popolo italiano è stato per secoli un popolo migrante nei secoli. Abbiamo sperimentato sulla nostra pelle uno sfruttamento atroce. E allora come si fa a non pensare che su tutto questo la comunità si dovrebbe compattare? Questo secondo me è molto importante, e solo se viene colto, poi la comunità politica capirà che su questo va investito. Va creata una cultura dell’accoglienza.»