Un
giorno normale, come tanti. Vai a scuola, ti siedi al banco, prendi
carta e penna, ascolti l’insegnante. Una routine diventata tragedia.
Un
uomo in tuta mimetica irrompe nell’edificio scolastico, con alcuni
colleghi, fermando molte ragazze. Pensi subito che sia un soldato,
forse un’esercitazione, un controllo di sicurezza. Ti fidi. Soltanto
nel momento in cui intravedi camionette appostate fuori, nel cortile
dove di solito fai ricreazione, e picchi di fumo rosso spuntano
sulle pareti del dormitorio, capisci che ti stai fidando di persone
sbagliate. Non sono soldati, sono insorti, e per qualche ignoto
motivo cercano te.
E’
trascorso quasi un mese da quando i rapitori hanno fatto irruzione
nella scuola di Chibok, nello stato del Borno, in Nigeria, eppure
ancora si sa poco o niente di questa storia.
Secondo
le ultime fonti, le ragazze sarebbero state rapite e portate in Ciad
o in Camerun, e sarebbero state costrette a sposarsi con i miliziani
integralisti islamici di Boho Aram, che significa “L’educazione
occidentale è proibita” (anche se il significato reale di “boko”
è “falso”).
Il
vero nome del gruppo è Jama’atu Ahlis Sunna Lidda’awati
wal-Jihad, che in arabo sta per “Popolo impegnato nella diffusione
degli insegnamenti del Profeta e della Guerra santa”.
L’organizzazione
è stata fondata nel 2002 dal leader Ustaz Mohammed Yusuf nello stato
del Borno, dove l’islamismo è molto radicato sin dalla presa
britannica del Califfato di Sokoto nel 1903, nel nord povero della
Nigeria. Boko Haram ha ucciso almeno 2.300 persone dal 2010, secondo
le stime giornalistiche e i rapporti di Amnesty International.
Le operazioni di ricerca
finora sono andate molto a rilento.
Un portavoce del governo
ha spiegato che le ricerche sono rese difficili dai bombardamenti
quotidiani delle forze nigeriane nelle zone dove si ritiene che siano
le ragazze, nell’ambito dei combattimenti contro Boko Haram. Lo
stesso Goodluck Jonathan, presidente della Nigeria, ha ammesso che le
condizioni di sicurezza nel suo stato non sono sufficienti per
ritrovare le ragazze, ma che farà di tutto personamente per farle
tornare a casa. Ha negato qualsiasi negoziato per ottenere la
liberazione delle ragazze e, infine, ha detto di aver chiesto aiuto
agli Stati Uniti («Ho parlato con il presidente Obama almeno due
volte») e a diverse altre nazioni tra cui Francia, Regno Unito e
Cina.
Il dolore e l’angoscia è
trasmesso dalle madri delle ragazze scomparse.
Come in Ucraina le madri
hanno manifestato in piazza, a Kiev, chiedendo pace, anche in Nigeria
le madri che hanno perso le loro figlie si sono unite in un grido
disperato di aiuto, senza chiedere vendetta ma aspettando il ritorno
a casa, alla normalità, alla routine. L’amore delle madri non ha
razza, né cultura: è amore puro. Disperatamente tenace di fronte ad
ogni cosa, che accoglie e pazienta.
L’interesse della
stampa internazionale su questa vicenda è pressochè nullo: la
notizia infatti è emersa solo da pochi giorni, dopo che è nato il
sospetto di stupro e violenze sessuali sulle giovani rapite, come se
soltanto il richiamo alla violenza, al sangue generasse interesse nei
lettori e telespettatori di tutto il mondo. Un elemento di grande
vantaggio per i rapitori, che hanno agito nell’indifferenza più
totale. Ciònonostante, in difesa del diritto allo studio e come
riflessione sulla condizione della donna nel mondo,adesso è scesa in
campo a sostegno delle ragazze anche
Malala Yousafzai, la
studentessa e attivista pakistana, presa di mira e sopravvissuta agli
attacchi dei talebani per il suo impegno per l’emancipazione delle
ragazze nei paesi islamici e per questo candidata (la più giovane
della storia) al Premio Nobel per la Pace.”Sono mie sorelle”, ha
detto a Nicholas Kristof che ieri ha riportato le sue parole
all’interno dell’op-ed da lui firmato sul New York Times.
È anche grazie a lei e ad altri testimonial
d’eccezione che finalmente, nonostante il ritardo, la storia delle
giovani studentesse nigeriane arriva anche da noi, esaudendo il
desiderio di un padre delle ragazze che attraverso lo stesso Kristof
aveva lanciato la richiesta ai “paesi potenti di intervenire”.
Così, dopo una partenza fiacca con l’hashtag
#BringBackOurDaughters, da ieri la mobilitazione si è fatta più
sostanziosa grazie al tag simile #BringBackOurGirls.
Il sangue sul nero non si nota. Evidenziamolo noi.
Fonti: