Mi sono
sempre chiesta dove andasse a finire l’insoddisfazione di queste ultime
generazioni.
In quale
infimo recesso della società contemporanea defluissero – come da uno scolo
sotterraneo – ansie, dubbi, preoccupazioni, insoddisfazioni, domande vitali a cui
la nostra società è sempre meno in grado di dare risposte soddisfacenti.
Poi ho
conosciuto la musica rap. E ho capito.
Certo con le
dovute distinzioni, come per ogni cosa: c’è un rap più venduto al commerciale e
uno duro e puro, un rap più “buono” e uno “cattivo”.
Eppure è in
questo genere musicale che si nasconde l’anima in cerca del nostro tempo, la
poesia vera e ancora viva.
Ed è
straordinariamente sorprendente la somiglianza tra questi artisti “di strada” e
i nostri più grandi poeti.
Un filo
rosso – nient’affatto tenue – lega il grande Leopardi al (semi)sconosciuto Low
Low.
Sarà proprio
vero?
”
È ancora
possibile la poesia?”, si interrogava Montale in occasione del ritiro del Nobel,
già nel 1975. “È ciò che molti si chiedono, ma a ben riflettere la risposta non
può che essere affermativa. […] Se ci limitiamo a quella che rifiuta con orrore
il termine di produzione, quella che sorge quasi per miracolo e sembra
imbalsamare un’epoca e tutta una situazione linguistica e culturale, allora
bisogna dire che non c’è morte possibile per la poesia”.
Eccola la
poesia che imbalsama la nostra epoca.
Tutto sembra
degenerato: com’è possibile – ci domandiamo scioccati di fronte a questi
rabbiosi giovani cantanti – che l’ansia sia diventata pura rabbia? Il rifiuto
del mondo odio rancoroso? L’angoscia sempre più disperata? Il linguaggio tanto
duro, volgare, sgrammaticato e violento? Il senso di solitudine, di estraneità
dal mondo, così forte? La mancanza di certezze tanto lacerante? Come si è
arrivati all’assoluta incapacità di riuscire a dare, di trovare, un messaggio
positivo?
Semplicemente
la poesia è cambiata perché noi siamo cambiati: “si potrebbero moltiplicare le
domande con l’unico risultato che non solo la poesia, ma tutto il mondo
dell’espressione artistica o sedicente tale è entrato in una crisi che è
strettamente legata alla condizione umana, al nostro esistere di esseri umani”
(‘È ancora possibile la poesia?’).
Fermatevi, per
un attimo, ad ascoltare quelle parole gridate da ragazzi che sembrano tanti
eterni Peter Pan – incapaci di
crescere, costantemente coperti da cappellini a visiera bassa e braghe larghe
– e capirete che quell’odio, quell’angoscia, quel linguaggio, quella solitudine
sono figli del nostro tempo, di un tempo incapace di rispondere alle loro
domande e di far crescere, di far maturare e di educare.
E capirete
la forza di questi ragazzini che hanno deciso di non abbassare lo sguardo a
terra, ma guardano dritta in faccia la vita. Ci vuole una forza tremenda nel
fare questo. Leopardi, banalmente definito un pessimista, nega questa sua
natura in ogni verso – di ogni singola
poesia – con l’atto stesso della scrittura. Come potrebbe – chi pensa solo il
peggio del mondo, dell’uomo e del nostro destino – continuare a trovare la
forza di scrivere versi sul mondo, sull’uomo e sul nostro destino?
Ogni verso è
lotta, atto di protesta contro uno sconforto cieco, contro la certezza che non
c’è speranza per niente e per nessuno. Smaniosa ricerca di aiuto e unico modo
per affermare se stessi, per gridare al mondo che “esisto e penso!”.
Certo, c’è
il rischio che questa diventi arida, sterile denuncia, eppure non mi sembra
indignazione quella che esce nei loro testi.
La scrittura
è, invece, necessità: strumento essenziale alla sopravvivenza, alla ricerca
ansiosa di risposte, ma, soprattutto, di qualcuno in cui trovare risposte.
Se Leopardi
lamenta una vita che è solo “male”, Low Low esprime la fatica di “stare al mondo”, un mondo in cui si sente “perso
fra la gente con niente che mi entusiasmi”. Sempre più “alla deriva” – come già denuncia il titolo di questa sua
canzone – quasi vivesse “per pagare il conto!”.
Eppure,
c’è una voce che ancora grida “resisti!”. Che spinge Low Low a scrivere “versi
eterni”, anche se poi – ne è già certo – “finiranno divorati dalle termiti”. Che
porta Leopardi a domandare, per l’ennesima volta: “Se la vita è sventura. […]
Perché da noi si dura?”.
In fondo
alla disperazione, rimane aperto il “forse”, la possibilità che ci sia
qualcuno, o qualcosa, per cui continuare. Un TU con cui costantemente cercare
un contatto.
Nel “Canto
notturno” Leopardi trasfigura questo tu, altro da sé, nella luna, questa
“solinga, eterna peregrina”, con cui inizia un incessante dialogo fatto di
insistenti, quasi piagnucolose, domande – ne conto più di venti. Perché lei, certamente,
potrà spiegargli “il perchè delle cose”, e “il frutto /Del mattin, della sera, /
Del tacito, infinito andar del tempo”. E fargli capire “a qual suo dolce amore
/ Rida la primavera, / A chi giovi l’ardore, e che procacci / Il verno co’ suoi
ghiacci”.
In Low Low
il colloquio continuo è inizialmente meno presente, ma la necessità di risposte
diventa sempre più pressante man mano che si avanza fino al grido conclusivo “E
che ne so. […] Non lo so. E tu lo saaaaaaaaaai? Le stelle che cadono in cielo,
la fine che fanno?”.
Il dado è
tratto.