Vigolo Vattaro (Trento). Davanti a un bar, spicca la scritta «Aperto». Seguita da «Open» e «Offen», a dire quanto si sia aperti al mondo. Infine, quasi a smentirsi, un colpo di dialetto: «L’è davert», ovvero «È aperto» nella lingua di casa, quella che si parla tra parenti e amici, quella che dà più identità.
Si potrebbe osservare che queste cose accadono solo nell’Italia del Nord Est, dove persino il medico del pronto soccorso continua a parlarti in trentino mentre ti sta cucendo, pur avendo appurato dalla carta d’identità che sei nato in Piemonte e risiedi a Roma.
Ma forse l’osservazione più giusta l’ha fatta E. M. Cioran, quando ha scritto che «non si abita un paese, si abita una lingua».
E se in una lingua ci si sta bene, perché impedire a uno di farsene cullare? Anche se la comunicazione esigerebbe la rinuncia a qualcosa di sé e una
maggiore attenzione alla lingua altrui…
È pure vero – ha notato Raffaello Baldini, poeta romagnolo – che «certe cose succedono solo in dialetto». Che non è una lingua di serie B ma certamente una lingua strana, incapace di dire qualunque cosa, eppure capace di dire certe cose in maniera unica.
Al mio, ad esempio, mancano i superlativi: così ha imparato a parlare per immagini, con un’abilità speciale nel coniare similitudini. Le sa fare per analogia, per contrasto e conosce pure quelle del terzo tipo, che sono le similitudini dell’irrealtà, dei casi impossibili. Come questa (tradotta): «Sei più intelligente del manico di una boccia» (cioè di qualcosa che non può esistere, dunque non sei molto intelligente).
E l’italiano? La stranezza è che venga percepito come lingua matrigna, imposta da un padre autoritario. Così può succedere che chi si sente privo di madre lingua vada in cerca di una lingua idealizzata, ritenendola più alta, più nobile o più pura. Seppure morta, come il latino.