È difficile dimenticare le immagini di Anderson Cooper, della Cnn, che nel 2010 ad Haiti abbandona la macchina fotografica per salvare un bambino dopo il terremoto. Sono diventate l’emblema del giornalista che non può non coinvolgersi nei fatti cui assiste, se la situazione lo richiede.
Nelle scuole di giornalismo e nelle redazioni si insegna che il giornalista deve essere imparziale e neutrale e quindi deve mettere sempre una distanza tra sé e i fatti, ma a volte il richiamo della vita prevale, soprattutto nelle situazioni di conflitto, violenza, morte.
In una certa misura, bisogna scegliere da che parte stare, anche quando si fa informazione. Per esempio, bisogna scegliere se si è giornalisti di guerra o giornalisti di pace.
Stiamo formando comunicatori di pace?
È la domanda che ha posto Peter Gonsalves durante il suo intervento all’interno del convegno “Ripensare la comunicazione. Le teorie, le tecniche, le didattiche”, in corso all’Università Pontificia Salesiana di Roma, che celebra il 25° anniversario della facoltà di Scienze della Comunicazione sociale.
Compito delle Università è insegnare teorie, ma Gosalves ha chiesto: «è possibile insegnare le teorie senza
riferimenti all’amore?», cioè a ciò che dà senso alla vita? «Faremmo un torto ai nostri studenti se
lasciassimo fuori dal nostro curriculum uno strumento di comunione».
La comunicazione ha un ruolo centrale prima, durante e dopo i conflitti: può contribuirle a inasprirli o viceversa a trovarne la soluzione. Ed è centrale nel peace building, cioè in quel lungo processo grazie al quale, dopo un conflitto violento, si possono ricostruire le istituzioni e le
infrastrutture; creare legami pacifici tra le fazioni
precedentemente in guerra; affrontare le cause più profonde del
conflitto: diseguaglianza, ingiustizia, oppressione.
Il tema della pace, infatti, include necessariamente concetti
come quello di sviluppo, dialogo, rispetto dei diritti, giustizia sociale…
Gonsalves ha quindi avanzato una proposta: inserire nei curricula alcune materie che concorrono, appunto, a formare comunicatori di pace.
1. Storia della pace sia personale che sociale.
2. Le tecniche della pace.
3. Diritti umani e comunicazione.
4. Strategie di risoluzione dei conflitti («se abbiamo corsi di gestione della comunicazione, perché non dovremmo avere corsi sull’interruzione della comunicazione?»)
5. Aspetti cognitivi e psicologici della pace.
6. Dialogo interculturale
7. Satyagraha gandhiano, per conoscere i metodi di lotta non violenta contro l’ingiustizia
8. Giornalismo di pace.
Quest’ultimo è un tema ancora poco conosciuto in Italia e si riferisce a quel giornalismo che pone una particolare attenzione a come il modo di costruire e trattare l’informazione può contribuire alla pace o viceversa alimentare conflitto.
Rita Dal Canto ha presentato il giornalismo di pace come un modello di giornalismo che, ad esempio, riconosce ed evita la propaganda, cerca la verità, non considera solo le due parti in conflitto ma si riferisce ad un quadro più ampio, quel quadro che spesso permette di avere una visione critica del conflitto stesso.
Il giornalista, insomma, si pone come ponte tra le parti in conflitto, offrendo un’informazione completa, che riporta entrambe le versioni e permette ai lettori di capire il punto di vista dell’altro dandogli quindi strumenti di dialogo.
Un giornalismo che – ha concluso Gonsalves – sa «usare le parole che non fanno danno».