RUSSIA, OMSK – È nuvoloso, ma nell’orfanotrofio № 10 oggi uscirà il sole. Il sole che, come speriamo noi, porterà con sé un po’ di gioia e di speranza ai piccoli. Nella nostra città siberiana sono arrivati due italiani, due grandi viaggiatori che, facendo la Transiberiana, si sono fermati ad Omsk. Tra le varie cose da fare, hanno deciso di visitare uno degli orfanotrofi della città, più precisamente il numero 10. Visto che i ragazzi non parlavano il russo, mi hanno chiesto di fare la traduttrice per loro nel momento in cui incontreranno i bambini orfani.
L’orfanotrofio № 10 si trova nella periferia nord della città. In quella zona non ci sono mai stata prima d’ora, così sono partita con molto anticipo per essere sicura di non arrivare in ritardo a un appuntamento che ritenevo importante. Dopo 20 minuti di viaggio in autobus, sono scesa davanti alla casa degli orfani № 10. Un numero che già da solo racconta una grande tragedia: esistono come minimo 10 orfanotrofi ad Omsk!
Sinceramente in quel momento non pensavo a questo. Mi preoccupava di più la lingua italiana perché avrebbero assistito a quell’incontro alcuni giornalisti del canale televisivo locale di Omsk. «Sarei stata capace di tradurre tutti i dialoghi?», mi chiedevo. Sono stati gli italiani stessi a chiamare i giornalisti in quanto volevano apparire in un programma televisivo. Trasformare la visita con i bambini in uno spettacolo non mi sembrava giusto, ma nello stesso tempo, forse, poteva in qualche maniera ricordare a tutti noi dell’esistenza di bambini rimasti senza genitori e parenti, abbandonati anche dalla società.
Dall’esterno l’orfanotrofio è una semplice krusciovka, vecchia e brutta, come sono anche molti altri palazzi russi, un’eredità dell’Unione Sovietica. Appena sono entrata ho spiegato ad un guardiano i motivi della mia visita. Lui ha chiamato la direttrice dell’orfanotrofio che poi mi ha accompagnata nel suo studio. «Non è ancora arrivato nessuno, abbiamo ancora mezz’ora», mi dice. «Vorrebbe thè o caffè?». Io ho rifiutato gentilmente la sua offerta, ma lei si è preparata una tazza di thè nero e si è accomodata alla sua sedia di direttrice. A prima vista mi è sembrata una donna buona, piacevole e aperta.
Dopo una piccola conversazione su cosa faccio nella vita e sugli italiani, che dovevano venire, siamo passati al lavoro della direttrice stessa. «È un lavoro duro, di una grande responsabilità», mi ha spiegato. «Solo nel nostro orfanotrofio ci sono quasi 120 bambini di età tra 8 e 17 anni. Nella provincia di Omsk ci sono 22 orfanotrofi». Nella mente ho fatto dei calcoli veloci: è una quantità enorme di bambini. Ma non è solo una cifra. Dietro questa numeri ci sono le vite di singole persone, di bambini innocenti, che hanno avuto la sorte di essere stati un giorno abbandonati da tutti. «Il nostro personale cerca di dare il massimo amore a questi bambini, ma, ovviamente, niente di questo può essere paragonato all’amore dei genitori. Le dico in tutta sincerità che adesso si calpestano con troppa facilità i diritti dei genitori. Basta davvero poco. È vero che a volte le condizioni in cui vive la famiglia non sono adatte ai bambini, ad esempio dal punto di vista igenico, però ritengo che comunque per i bambini sia sempre meglio vivere con i genitori piuttosto che in un orfanotrofio».
Quando sono arrivati i ragazzi italiani e i giornalisti, siamo andati nella sala grande per incontrare, finalmente, i bambini. Non sono venuti tutti: erano 20-30, penso. Chissà secondo quale criterio li hanno scelti tra tutti gli altri. La sala, dove doveva avvenire l’incontro, era grande e spaziosa, con un palcoscenico, ma vuota: niente quadri o piante. Immagino che proprio qua con i bambini organizzano degli incontri con persone interessanti. La direttrice mi diceva che ogni tanto da loro arrivano anche i giocatori della Avangard, la squadra di hockey di Omsk.
Gli italiani si sono seduti al centro della sala e i bambini si sono sistemati davanti a loro, creando un semicerchio. Io mi sono messa accanto ad una bambina chiudendo il semicerchio da uno dei lati. Questa bambina sembrava la più piccola di tutti i bimbi presenti. I più coraggiosi facevano delle domande agli ospiti sul cibo italiano, sul calcio, sul mare. Io traducevo domande e risposte. I bambini sorridevano e ridevano insieme con gli italiani. Sorridevo anche io, finché non ho notato che la bambina accanto a me non sorrideva proprio. Aveva capelli corti fino alle spalle, era vestita in una maglia bianco-rosa, come una piccola principessa: sembrava davvero la bambina più piccola di tutti. Con mio grande dispiacere, è rimasta triste durante tutto l’incontro. Alla fine gli italiani hanno regalato ai bimbi una valigia piena di vestiti. Tutti i bambini sono corsi per vedere cosa gli avevano portato. Solo quella bambina si è alzata lentamente dalla sedia e poco alla volta ha raggiunto gli altri, ma a quella valigia non si é mai avvicinata.
Alla fine dell’incontro, è stata scattata una foto di gruppo insieme agli ospiti italiani. Dopodiché i bambini sono tornati nelle camere, mentre gli italiani sono rimasti per un’intervista. Ovviamente, sono rimasta anch’io con loro, per continuare con le traduzioni. Cercavo continuamente di non pensare a quel che avevo visto nella sala e a quel che avevo sentito dalla direttrice, per concentrarmi sul lavoro da fare in quel momento. Solo alla sera, quando sono rientrata a casa, ricordando gli occhi di quella piccola bambina, ho pianto.