Perchè
dall’estate del 2014 si è spesso formulata l’equazione Africa =
Ebola? È un’equazione possibile? realistica? Assolutamente no.
Ma ancora oggi molti la pensano così. Il volume dei viaggi turistici
o di lavoro verso il continente è calato in misura abnorme (oltre il
70% – fonte “Africa e Affari” dicembre 2014); i turisti prima di tutto
hanno scelto mete più sicure. “Una psicosi che fa più danni del
virus stesso”, così si è espresso Massimo
Zaurrini, direttore della
rivista “Africa e Affari” al convegno organizzato alla Società
Geografica Italiana sul tema di Ebola in Sierra Leone, proprio per
fare il punto della situazione ad un anno dall’esplosione del
contagio in Africa Occidentale. E ha aggiunto: “Ebola è insomma più
che un virus, è una psicosi generalizzata, alimentata soprattutto da
una mole di stereotipi, retaggio del passato, segno di ignoranza
profonda dell’Africa e delle sue dinamiche culturali.”
Ma
veniamo ai dati: i più aggiornati parlano di 22.800 casi in tutto e
9177 vittime (OMS). È difficile tuttavia tenere a bada i
numeri. Secondo il Ministro
Baldi per la cooperazione
italiana, che si è occupato di Africa di Ebola nell’ultimo anno anche
effettuando diversi viaggi di ricognizione sul luogo, in Sierra Leone
sette nuove provincie hanno registrato casi di Ebola. L’epidemia si
diffonde ancora; ma fa meno paura. Ospedali da campo attrezzati,
inviati dall’Italia e in prima linea dall’ospedale Spallanzani
con il finanziamento congiunto dell’Unione Europea, hanno fatto la
differenza negli ultimi mesi.
Secondo Maurizio
Barbeschi nel 2014 si è steso
un programma di intervento dall’Europa di circa 7.000.000 di euro,
che ha mosso i primi passi finanziando organizzazioni già operanti
nel territorio. OMG, Croce Rossa, Unicef hanno avuto il ruolo di
coinvolgere la popolazione. In una seconda tappa si si è attivata un’ampia rete di ONG (Emergency prima fra tutte) laiche e cattoliche,
che operano con migliaia di volontari sul campo.
I problemi sono scaturiti dal
sistema di allerta che non ha funzionato efficacemente e da sistemi
sanitari non conformi. Ma c’è da aggiungere il fatto che le aree
di confine sono in conflitto con il governo centrale perché le
comunità ivi stanziate non si sentono rappresentate. Di conseguenza,
a livello locale le comunità non sono state responsabilizzate per
affrontare il problema autonomamente. Il coordinamento è stato
operato dalla sede preposta di Dakar. ma dovrà essere perfezionato
dato che è anche successo che gli organismi internazionali che
coinvolgevano i tre paesi legati storicamente a Sierra Leone, Guinea
e Liberia, rispettivamente Inghilterra, Francia e Stati Uniti, si
siano intralciati in fase di intervento sul campo.
Dal punto di vista
prettamente medico invece la coordinazione del lavoro è stata
ottima, il soccorso medico efficente ed efficace, nonostante una certa
scarsezza di personale (servirebbero altri 5000 volontari almeno) che
non è facile reperire per la paura diffusa. A seguito dell’epidemia infatti già
alcune centinaia di operatori hanno perso la vita.
L’Italia si è
distinta anche per un ottimo intervento psico-sociale, ha detto Francesco Vairo, coadiuvata in
questo anche dal CEI e Freetown ha visto l’apertura di centri di
accoglienza per minori orfani. Questi vengono ospitati per tre
settimane, mentre si prendono contatti con le famiglie che li
ospiteranno. “Il lavoro psico-sociale è di primaria importanza per
limitare gli effetti e la diffusione del virus; in particolare deve
filtrare un messaggio per insegnare come trattare anche i corpi dei
defunti, evitando, almeno
temporaneamente il trattamento con i metodi tradizionali, considerati
pericolosi perchè prevedono un contatto fisico con il corpo del
defunto prima del commiato. Le autorità religiose locali hanno un ruolo forte in questo e possono più efficacemente influire sulle comunità
locali per limitare la pratica tradizionale a rischio.
In
generale, il sistema organizzativo, affinchè funzioni capilarmente,
deve prevedere il finanziamento di organismi ex-novo, di
quelli già esistenti. Il potenziamento delle strutture sanitarie
periferiche, ma non solo. Occorre promuovere la diffusione di una
gran mole di informative attraverso convegni e dibattiti
internazionali, sia in loco che nei paesi non africani; ricreare un
rapporto di fiducia verso il sistema sanitario nazionale, le cui
falle e debolezze strutturali, soprattutto in periferia o nelle
foreste, hanno in qualche caso amplificato la diffusione del virus.
Così, con gli ospedali chiusi per paura che si diffonda ancor di
più Ebola, si muore anche per semplici encefaliti, o anche diarrea,
malaria, morbillo. Naturalmente, occorre lavorare sul vaccino: bisogna
incentivare la ricerca a breve. Le ditte farmaceutiche investono se
hanno un ritorno e si dovrà quindi creare il contesto adeguato.
Bisogna poi avere una buona organizzazione per la diffusione del vaccino
quando sarà pronto. Uno dei centri di eccellenza per la
realizzazione del vaccino è a Pomezia.
Il professor Polizzi
invece ha parlato dell’efficenza dell’Ospedale di Makeni
(Freetown). Vanta una grande capacità di effettuare il triage di
controlli molecolari nelle 12 ore previste. “Abbiamo fatto
incontrare e collaborare esperienze mediche diverse, attraverso
l’impiego di staff internazionale proveniente da vari continenti.
Il reparto comunque non si chiama Ebola perchè in futuro si occuperà
di altri problemi infettivi. Siamo soddisfatti dei 130 sopravvissuti
di Makeni, una buona fetta dei più di mille casi di guarigione degli
ultimi mesi in Sierra Leone”, ci informa soddisfatto. Un altro grande passo è rappresentato dall’educazione
sulle malattie infettive agli studenti di medicina dell’università
di Makeni. La formazione è qualcosa di imprescindibile. La
situazione di psicosi generale sui rischi di contagio e la speranza
di vita si sta via via tranquillizzando. Rimarranno attivi a lungo
centri sentinella per la sorveglianza epidemiologica.