Il prossimo 23 Maggio 2015, monsignor Óscar Romero, arcivescovo di San Salvador, assassinato nel 1980 durante una celebrazione, sarà proclamato beato per martirio in odio alla fede. Un processo “arduo” – come lo ha definito il suo postulatore, monsignor Vincenzo Paglia – iniziato nel 1997 e più volte osteggiato da quella parte di curia che ha sempre visto in Romero un accanito difensore dei diritti del popolo salvadoregno e un “non allineato” con le gerarchie ecclesiastiche della El Salvador degli anni settanta. Una causa che ha potuto trovare il suo nulla osta anche grazie al primo pontefice latino-americano.
Jesús Delgado, suo segretario personale negli anni dell’arcivescovado e grande conoscitore della figura del martire salvadoregno (ne scrisse la biografia nel 1986), oggi raccoglie in un libro parte della corrispondenza privata che Romero intratteneva con i suoi fedeli e conoscenti. “La Chiesa non può stare zitta. Scritti inediti 1977-1980” (Emi, 2015) ci racconta un Romero più intimo, lontano dai discorsi pubblici in cui si giustificava rispetto alle accuse ricevute e che qui mostra, nella sua essenza, il forte legame pastorale con il suo popolo. «È impressionante constatare la fiducia che i fedeli dell’arcidiocesi e delle diocesi foranee del Salvador riponevano in monsignor Romero», scrive Delgado. «Di solito le persone presumono che un vescovo sia occupato in mille cose, e perciò non si azzardano a scrivergli. Invece il popolo di Dio sentiva monsignor Romero molto vicino a sé, preoccupato dei dolori e degli affanni della gente, concentrato a interpretarne umanamente la situazione e a valutarne cristianamente le aspirazioni».
Óscar Romero vive da arcivescovo un tempo di crisi economica, politica e sociale per El Salvador, un paese messo in ginocchio dalla dittatura militare e dall’immensa disparità sociale tra ricchi e poveri. Un tempo in cui la Chiesa stentava a far sentire la sua voce. Scriveva Romero: «El Salvador è un Paese piccolo, indigente e lavoratore. Qui viviamo grandi contrasti nell’aspetto sociale: emarginazione economica, politica, culturale ecc. In una parola: ingiustizia. La Chiesa non può restare zitta davanti a tanta miseria, perché tradirebbe il Vangelo, sarebbe complice di coloro che qui calpestano i diritti umani. È stata questa la causa della persecuzione della Chiesa: la sua fedeltà al Vangelo». In più passaggi del testo, Delgado dice che per comprendere l’opera missionaria di Romero non si può prescindere dal fatto che lui stesso appartenesse alla Chiesa, lui stesso si sentiva Chiesa. «Per molti anni siamo stati responsabili del fatto che molte persone vedessero nella Chiesa un’alleata dei potenti in campo economico e politico, contribuendo così a formare questa società d’ingiustizie in cui viviamo. La Chiesa sta cercando di far giungere la sua voce a tutti gli ambienti, affinché come cristiani ci assumiamo la responsabilità di vincere il peccato e costruire la fraternità in base alla giustizia».
Dall’epistolario emerge che l’arcivescovo salvadoregno sapeva da anni di essere sotto la mira degli “squadroni della morte” per ciò che predicava nelle sue celebrazioni. Ad un fedele che gli chiedeva perché perpetuavano episodi di violenza sul popolo lui rispondeva: «Abbiamo denunciato il fatto tramite la radio e i giornali cattolici. Questo ha comportato nuove calunnie contro la mia persona e contro il clero arcidiocesano. Stiamo facendo un appello per chiedere la collaborazione dei cristiani a favore delle persone di quelle zone che hanno subito danni». Per Delgado, monsignor Romero è stato un’uomo, un profeta, un sacerdote e non per ultimo un pastore. «La corrispondenza personale è una testimonianza scritta di prim’ordine che monsignor Romero non cercava di fare politica con le sue omelie. Nel più semplice dei suoi consigli c’è un’abbagliante elevazione dell’anima al Dio della nostra fede. Un innalzamento che monsignor Romero otteneva non per mezzo di segni, miracoli o prodigi, ma con la parola stessa di Dio».