L’informazione religiosa non si improvvisa. È fatta di studio approfondito, riferimenti e confronto paziente. Il viaggio è condizione per capire, perché sono gli incontri a svelare la portata degli eventi. “Cronisti dell’invisibile” (Ancora Editrice) è una raccolta di quindici interviste con vaticanisti e professionisti dell’informazione religiosa curata da Ivan Maffeis, direttore presso l’Ufficio Nazionale per le comunicazioni sociali (CEI) e docente di Etica e deontologia dei media presso l’Università Pontificia Salesiana. Ed è proprio ai suoi studenti e a tutti coloro che vogliono intraprendere questa professione che l’autore si rivolge, consegnandogli un manuale di deontologia pratica e vissuta. Quindici “colloqui” – come lo stesso Maffeis li definisce – che non rivelano clamorosi scoop ma che invece tentano di mettere a nudo le ambizioni, gli ostacoli e più in generale le storie di vita di quei giornalisti che quotidianamente e con diversi mezzi si interfacciano con la sfera religiosa.
«Nelle redazioni dei giornali come in quelle radiofoniche o televisive, la figura del vaticanista è una delle ultime che ancora sopravvive – dice Franca Giansoldati, vaticanista de Il Messaggero – siamo cronisti, ma ci misuriamo con una materia complicata. Per arrivare a raccontarla, abbiamo bisogno di tempo e di investirci energie, non puoi improvvisarti o pretendere di fare salti: devi avere memoria storica, conoscere le cose di cui scrivi o almeno avvertire la disponibilità a fartele spiegare e ad approfondirle nei libri».
Anche l’informazione religiosa sta facendo i conti con il mondo digitale della tempestività e della concorrenza spietata tra testate. Quella che Paolo Rodari chiama «la religione del dover arrivare per forza primi. La verità – continua il vaticanista de La Repubblica – si coniuga male con la fretta, ha bisogno di tempo per essere raccontata. Rimane dote impegnativa, la prudenza, quando il clima che respiri ti sollecita a correre e a forzare». Si tende spesso a generalizzare e a ricondurre le vicende ecclesiastiche a puri scontri tra fazioni. Aldo Maria Valli, vaticanista del Tg1 racconta: «Durante l’assemblea dei vescovi dello scorso Ottobre 2014 la richiesta che mi arrivava dalla testata cui appartengo era quella di giocare molto sulla contrapposizione tra conservatori e progressisti, facendo capire che era in corso una battaglia senza esclusione di colpi e con una frangia della Chiesa che si opponeva al Papa. Mi è stato difficile spiegare che non tutto poteva essere ridotto a una simile lettura».
Secondo Stefano Maria Paci, vaticanista di SkyTg24, in pochi anni la professione dell’informatore religioso è cambiata. «Il profilo del giornalista di oggi richiede una formazione completa, diversa da quella con la quale siamo cresciuti. Quando dovevo fare un servizio in Rai, lo comunicavo alla segreteria di redazione e subito trovavo pronta una macchina con l’autista e l’operatore: a me restava il compito di pensare a come imbastire la notizia. Adesso invece sei gravato della responsabilità di tutto, perfino dei problemi tecnici che possono insorgere. La figura che sta nascendo è quella del giornalista multimediale, formato a tutto tondo e dotato di grande elasticità».
In questo mutamento di scenario mediale la figura di Papa Francesco è la più ripresa dai giornalisti grazie al suo linguaggio metaforico, conciso, vicino al sentire della gente. Ma per Andrea Tornielli, coordinatore di Vatican Insider, «non è tutto inedito, non tutto succede ora per la prima volta: vince in qualità chi riesce a riconoscere collegamenti e sintonie che altri nemmeno immaginano e sa, quindi collocare la notizia in un preciso contesto e darle anche una pista di interpretazione. Il futuro passa dalla specializzazione».
“Cronisti dell’invisibile” si conclude con un’intervista al direttore della Sala Stampa Vaticana, Padre Federico Lombardi, al quale l’autore chiede una riflessione alla luce della sua lunga esperienza da giornalista e comunicatore. «La condizione per poter capire e quindi comunicare veramente un messaggio – afferma il gesuita – è quella di amare la persona che lo trasmette. Durante gli ultimi cinque anni del pontificato di Giovanni Paolo II non sarebbe stato possibile seguire con le telecamere e ridare al mondo l’immagine di un Papa sofferente, con la verità e insieme con la discrezione e il rispetto dovuto al malato, se gli operatori non fossero stati guidati da un grande amore per la persona che riprendevano. Qualcosa di analogo, a mio avviso, vale per ogni forma di comunicazione».