05 Set 2015

Prosperi, Adou, Shems, Aylan… sono anche nostri figli

Il mondo grida allo scandalo per la foto del bimbo siriano trovato senza vita sulla spiaggia di Bodrum. Tra dolore e indignazione l'Europa si risveglia e prende coscienza di un'emergenza fatta di 30 mila morti negli ultimi 15 anni. E della necessità di accogliere

Oggi fa male guardare il mare e non per il cielo plumbeo di settembre che fa alzare le onde. Contro gli scogli, con prepotenza, con rabbia e disgusto, anche l’acqua si ribella ad un destino sempre più meschino e infame. L’ultimo morto sbattuto in prima pagina non è né un padre di famiglia, né una mamma o un anziano. E’ un bambino, Aylan, e il suo corpo disteso lì dove gli altri bambini di solito raccolgono conchiglie è uno squarcio nel velo dell’indifferenza e dell’intolleranza. Aylan, 3 anni, veniva da Kobane, città siriana prima conquistata dall’Isis, poi ripresa dai curdi, con una costante: l’hanno bombardata tutti. Una fuga dalla fame e dalla guerra, dalla Siria alla Turchia, con l’obiettivo di attraversare il mare fino in Grecia, in Europa e poi via verso il Canada, dove a Vancouver ad attenderli ci sarebbe stata una zia. Quel viaggio si è interrotto quasi subito: “La barca si è capovolta – racconta il padre Abdullah – con una mano tenevo mia moglie, con l’altra i miei figli, ma mi sono scivolati via. Era molto buio, tutti gridavano per la paura. Ero in ospedale quando ho saputo che erano morti”. Sulla spiaggia di Bodrum, in Turchia ci arriva solo il corpo del piccolo Aylan, portato a riva dal mare che lo ha rigettato, quasi a buttarlo via, quasi a non voler avere sulla coscienza l’ennesima vittima. Inutile negarlo, questa è una immagine che rimarrà impressa nella nostra mente per tutta la vita. Fa male al cuore, perché se non ci fanno ancora paura i numeri enormi di morti nel Mediterraneo (quasi 30 mila negli ultimi 15 anni), a straziarci l’anima ci ha pensato quella sagoma innocente, pura e candida che la vita ha abbandonato.

Quel bambino avrebbe dovuto giocare a pallone, correre insieme ai suoi coetanei, divertirsi e vivere la spensieratezza dell’infanzia. Non morire così in un viaggio che è una fuga da un presente che non ha scelto, per un futuro solo ipoteticamente migliore. E non è vero che i bambini non sanno, che ignorano la sofferenza del mondo di povertà e miseria che li circonda. Kinan, bambino siriano di 13 anni, ha risposto a tono ad una guardia armata di Budapest, città dove insieme ai suoi concittadini è bloccato da giorni: “Voi fermate la guerra in Siria e noi non vorremmo più andare in Europa”. Quello “Stop the war” uscito dalle labbra di un bambino, acquisisce un valore inestimabile che si impregna di diritti umani, di storia e di pace, un grido di dolore misto a rabbia per come il mondo sembra aver chiuso gli occhi sul vero dramma del nostro secolo. Una risposta al primo ministro ungherese, che da poco ha ribadito la necessità di chiudere i confini e ha pure aggiunto, non soddisfatto, che queste persone non essendo cristiani, ma musulmani “inquineranno la civiltà europea”. Frasi che mettono i brividi, mentre l’umanità piange e dice “basta” ad un traffico di uomini, donne e bambini che sta portando solo morte, sofferenza e paura.

E la colpa è soprattutto di chi ha permesso questo e fino ad ora è stato con le mani in mano. La Germania, finalmente, sembra essersi svegliata: “Noi aiutiamo” titola la Bild e la cancelliera Angela Merkel improvvisamente non perde occasione per ricordare i principi di solidarietà alla base dell’Unione europea. Trovata elettorale o improvvisa presa di coscienza? Fino ad ora i tedeschi hanno fatto poco o nulla, ma ora pare abbiano deciso di dare finalmente la giusta dimensione alla tragedia, ergendosi non solo più come garanti dell’austerità e delle regole, ma anche di accoglienza, rispetto e solidarietà. Cosa che non smuove l’est Europa, che invece continua la sua battaglia contro chi non ce la fa più. Ungheria, Repubblica Ceca, Slovacchia, Lettonia, Lituania, vale la pena fare i nomi da mettere sul banco degli imputati: loro non li vogliono, come fossero pacchi da rispedire indietro. Bastano i numeri però a far impallidire. Secondo l’UNHCR, l’Agenzia Onu per i rifugiati, nel 2014 hanno perso la vita in mare almeno 3.300 persone, con oltre 207.000 rifugiati e migranti che hanno tentato la traversata del Mediterraneo. Secondo le stime del 2015 invece, per l’Oim (organizzazione internazionale per le migrazioni) siamo già oltre le 2000 vittime e sopra i 200 mila arrivi. Di questo passo si supererà di gran lunga il record negativo dello scorso anno.

Ma cosa ci dicono quei volti dei bimbi in fuga dalla guerra? Secondo il ministero dell’Interno, dei migranti giunti sulle coste italiane nel 2015, il 14% sono minori e di questi, il 68% è arrivato nel nostro Paese da solo, senza alcun adulto di riferimento. Eritrea, Somalia, Gambia, Siria, tante storie di sofferenza e voglia di libertà. Da Prosperi, bambina che in braccio al papà guarda il mare lì dove è morta la sua mamma, ad Adou, ivoriano di 9 anni nascosto in una valigia per entrare in Spagna. O come Shems, tradotto “Speranza”, bambina siriana nata due giorni fa su un pezzo di cartone in un sottopassaggio della stazione di Budapest; un’ambulanza si è rifiutata persino di portarla in ospedale. Ora il mondo intero si è indignato, ma quanti viaggi, quanta disperazione e quanti morti abbiamo dovuto aspettare? Serviva la foto di un bambino senza vita per risvegliare le coscienze? Pare di sì, ma nell’Europa fondata sui diritti umani, da quel motto “libertà, uguaglianza e fratellanza” no, non sarebbe dovuta servire. Qualcuno accusa già di sensazionalismo, di infelice trovata economica (perché si sa che i giornali in questi giorni vendono di più) prima del prossimo lungo e pesante silenzio delle autorità, che si romperà solo al prossimo naufragio e alle prossime morti in quel mare che giorno dopo giorno si sta tingendo sempre più di rosso.

Quello è il sangue dei nostri figli e non basterà tutta l’acqua del pianeta a pulire le nostre coscienze, di chi è razzista, di chi accusa “stessero a casa loro”. Stavolta siamo tutti chiamati in causa: fatela vedere ai vostri figli quella foto e fermatevi a riflettere insieme a loro sul senso ultimo dell’esistenza. Prendete coscienza che questo è stato, come direbbe Primo Levi. Oscurarla sarebbe stato solo l’ennesimo atto di indifferenza e crudeltà che ha portato in questa tragica e drammatica situazione. Quel cadavere, o peggio ancora quel poliziotto che lo raccoglie da terra come in una pietà dei nostri giorni, ci indigna, ci fa urlare allo scandalo, ma dovrebbe anche farci capire che in quello scatto c’è tutto il dramma della guerra. Una foto che farà la storia, chissà se da oggi in poi i governanti europei ne saranno davvero all’altezza. All’orizzonte si vede già il prossimo barcone e non ci basta più pregare che raggiunga la costa integro e senza vittime.

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