La foto di Aylan, il bambino
siriano di tre anni trovato morto annegato sulla spiaggia della Turchia, ha
riaperto il dibattito sulla possibilità di mostrare o meno, sui media, immagini
di minori così crude e strazianti. Il direttore de La Stampa, tra i pochi
quotidiani a pubblicare in prima pagina la foto di Aylan, scrive così ai suoi
lettori: «nascondervi questa immagine
significava girare la testa dall’altra parte, far finta di niente; qualunque altra
scelta era come prenderci in giro, serviva solo a garantirci un altro giorno di
tranquilla inconsapevolezza». Gli fanno eco le grandi ong
internazionali. L’Unicef attraverso il suo portavoce ribadisce che la foto
andava postata, affinché «il dramma di tanti
bimbi innocenti non resti taciuto». Di “sofferenza silenziosa” parla Valerio
Neri, direttore di Save the Children che poi aggiunge: «è questa la risposta
che l’Europa è riuscita a dare a chi fugge da guerre, violenza e fame, una
risposta tardiva ed inadeguata». Actionaid
Italia, più critica per la crudezza dello scatto, cita Dostoevskij:
«hanno pianto un po’, poi si sono abituati. A tutto si abitua quel vigliacco
che è l’uomo».
Il
dramma dell’immigrazione, incarnato in un cadavere di tre anni arenato su una
spiaggia turca, è ormai noto a tutti. Ma lo sarebbe stato ugualmente senza la
foto di Aylan? Perché non ci hanno scosso (o ci hanno impressionato meno) le
tante foto di migranti stipati sui barconi o in coda sui moli dei porti
siciliani? Come spiega Andrea Pogliano, docente di sociologia ed esperto di fotogiornalismo, esistono
due serie di fotografie con il piccolo Aylan: «la prima comprende anche il
poliziotto turco, l’altra invece lo esclude, mostrando solo il cadavere del
bambino siriano. Solo il primo
scatto include il gesto pietoso all’interno della fotografia, senza
demandarlo interamente allo spettatore. Quest’ultima immagine non mostra il
volto del cadavere: subordina la rappresentazione della morte alla
rappresentazione della pietà».
Questa prima
immagine – dice Pogliano – anche se deontologicamente più corretta, (perché non
mostra il volto del minore) «avrebbe finito per ricordare le tante immagini già
mostrate di bambini soccorsi, tenuti in braccio da uomini della marina
militare, finanzieri, carabinieri o poliziotti sui moli del Sud Italia. La
morte, invece, sebbene sia stata spesso evocata a parole, non si è quasi mai
vista in questi decenni di immigrazione. La morte è stata a lungo sostituita visivamente dalla pietà, dal gesto
caritatevole: dal regime visivo dell’umanitario. Questa sostituzione ha
prestato il fianco a tutta la retorica sul “buonismo dell’accoglienza”».
Con la strage di
Lampedusa dell’ottobre 2013 la morte è stata resa nota a tutti, in quei corpi
galleggianti che hanno creato tanta indignazione e coraggio per avviare
l’operazione Mare Nostrum.
Allora ecco
emergere le motivazioni che hanno condotto alla pubblicazione della seconda
foto. «La rappresentazione della morte senza la rappresentazione della pietà
porta un discorso che è rimasto taciuto troppo a lungo nel racconto
dell’emigrazione/immigrazione. Non è un discorso indiretto, che vira sulla
nostra solidarietà, i suoi pregi e i suoi limiti. È invece un discorso diretto,
su quel dramma e su di noi che lo guardiamo da casa. Ne usciamo spogliati di quella
visione da riunione di condominio (casa nostra, casa loro); sporchi, nella
nostalgia per il piccolo mondo antico, ora che ci si accorge del prezzo che
assume l’appagamento di questo sentimento; persino ridicoli nell’usare la
metafora idraulica, propagandando che si possa fermare l’immigrazione».
Il corpicino di Aylan, secondo il sociologo, sembra far cessare quel derby tra “buonisti” e
“razzisti” alimentato da schieramenti politico-ideologici. «Si scopre così che le vittime innocenti di
guerre sporche e i clandestini brutti sporchi e cattivi possono essere la
stessa cosa e proprio per questo può aprire delle crepe in quel
muro politico-mediatico che ci ha abituato a vedere gli immigrati senza vedere
gli emigrati. Magari non
cambierà troppo la politica e le opinioni, ma potrebbe innescare un processo.
Le icone, spesso, sono servite a tale scopo». La foto di Aylan è
diventata un simbolo, ha scosso la politica interna di alcuni governi europei e
incoraggiato altri a fare di più. Mario Calabresi a conclusione del suo editoriale
del 3 Settembre auspicava: «è l’ultima occasione per vedere se i governanti
europei saranno all’altezza della Storia». Potremmo chiederci quante altre ‘ultime occasioni’ ci saranno prima che le cose realmente cambino.