E’ sempre stato difficile raccontare il terzo settore, oggi lo è ancora di più. Lo scandalo della mafia a Roma e tutte le sue conseguenze hanno gettato un’ondata di fango sul mondo dell’associazionismo e delle cooperative, per questo la comunicazione ha un ruolo centrale nell’affrontare la tematica. Se ne è parlato durante il corso di formazione per giornalisti “Non è solo Mafia Capitale – Perché è difficile raccontare il terzo settore” organizzato a Roma martedì 3 novembre dal Cesv, il Centro Servizi per il volontariato del Lazio e dall’Associazione Stampa Romana. In una location d’eccezione: la sede della Federazione nazionale della Stampa italiana, in Corso Vittorio Emanuele 349. Il terzo settore occupa un ruolo chiave per i servizi che offre, ma storicamente è sempre stato di difficile definizione sia da un punto di vista etico, normativo e culturale, sia soprattutto da una prospettiva giornalistica. Per questo un corso di formazione per gli addetti ai lavori nel mondo della comunicazione.
Mafia Capitale ha scoperchiato un vaso di Pandora riempito di coooperative e associazioni immischiate in malaffari di servizi amministrativi, accoglienza, ambiente, verde pubblico e pulizia con un giro di milioni di euro. Le mele marce però vanno estirpate anche salvaguardando chi invece fa un lavoro onesto e trasparente: di circa 2000 cooperative presenti a Roma, solo 20-30 sono state coinvolte nello scandalo. Il terzo settore in Italia è infatti un fenomeno di portata nazionale: sono 301.191 le istituzioni non profit attive, 45 mila le associazioni, con 4,7 milioni di volontari, 681mila dipendenti, 271mila lavoratori esterni e 5mila lavoratori temporanei. Stiamo parlando dell’unico settore in cui nonostante la crisi, dal 2008 c’è stato un picco di occupazione per i lavoratori. Numeri emersi durante l’incontro che confermano per l’ennesima volta una frase ormai nota: le risorse economiche vengono da quelle sociali, non viceversa.
Se però da una parte è possibile registrare con precisione chi offre le proprie prestazioni lavorative ad associazioni e cooperative (psicologi, assistenti sociali e altre professionisti), dall’altra è difficile tracciare le attività di chi fa semplicemente volontariato. Un unico dato è certo: tra attivisti, donatori, volontari occasionali, sporadici e tantissime altre figure sono 5,4 milioni gli italiani che fanno attività di volontariato almeno una volta a settimana. Risorse che il mondo del giornalismo deve saper cogliere. “Il volontario non è un salvatore – sostiene nel suo intervento Stefano Trasatti, direttore dell’agenzia Redattore Sociale – non è un eroe e neanche un angelo. I media incensano questa figura quando fa comodo, ma poi se ne scordano. Questo allontana il pubblico dalla realtà: il volontario è innanzitutto una persona competente, che mette a disposizione le proprie qualità per aiutare gli altri. Ma tutti possiamo essere volontari e dobbiamo far sì che diventi normale e che questa figura non sia più mitizzata”.
Chi fa volontariato quindi è portatore di un messaggio di solidarietà e partecipazione e ogni buon giornalista dovrebbe saperlo coinvolgere nel proprio lavoro. Come? Rendendosi conto di avere tra le mani una fonte diretta, qualcuno che conosce meglio di chiunque altro problemi e speranze delle persone che aiuta. “Deve essere un mediatore di storie – sostiene proprio Trasatti – perché lui conosce i problemi e li anticipa, tanto che molte leggi nascono proprio da intuizioni e segnalazioni di operatori sociali e volontari”. Un giornalismo sensibile e partecipativo non può quindi dimenticarsi dei protagonisti del terzo settore. Conoscerli, tradurre il loro lunguaggio e aiutarli a comunicare faciliterebbe l’accesso ad un mondo di solidarietà che ha solo bisogno di essere raccontato. Con realismo e umanità.