Durante il giubileo della Comunità dell’Università Pontificia Salesiana del 9 marzo scorso, dedicato ai “Volti della Misericordia”, è interventuto Jean Tonglet, delegato di ATD Quarto Mondo, il movimento internazionale fondato da Padre Joseph Wresinski.
Padre Wresinski è una figura profetica del novecento: alcuni suoi libri, come “I Poveri sono la
Chiesa”, sono tradotti in italiano e recentemente è uscita la biografia di Georges-Paul Cuny, “L’uomo che dichiarò guerra alla miseria” (ed. Paoline, 2016). Nato in Francia nel 1917, sposò la causa dei più poveri, tanto che nel 1956 fu mandato dal suo vescovo al “Campo dei
senza tetto” di Noisy-le-Grand, nella regione parigina. Lottò sempre insieme a coloro che si trovavano in povertà estrema, per dare loro dignità, per difendere i loro diritti, per far sentire la loro voce fino all’ONU,
all’Unione europea, al Consiglio d’Europa, al Vaticano, all’Eliseo.
Riportiamo qui l’intervento di Jean Tonglet, su “Miseria e Miericordia”.
Padre Joseph, pur non essendo un
intellettuale, un teologo- aveva studiato poco -, ci ha lasciato un ampio
magistero. Alcuni libri, articoli, interviste, ma soprattutto un insieme di
scritti o di parole registrate, in grande parte ancora inedite: omelie,
conferenze, incontri con i volontari del Movimento, ritiri, prediche, ecc…
Quello che caratterizza quel magistero è il suo ancoraggio nella vita dei
poveri. Non è mai una teoria, un ideologia. Parte della vita concreta delle
persone che vivono nella povertà estrema, nella miseria, una vita che padre
Joseph ci aiuta a capire con il suo sguardo particolare che trova la sua
origina nella sua esperienza personale della miseria, da bambino nella sua
propria famiglia e da adulto, attraverso una vita condivisa con i poveri di
Noisy-le-Grand prima e poi di tutto il mondo.
Per affrontare il tema, vorrei
partire da un testo di lui. Si tratta di uno dei messaggi che scriveva tre
volte l’anno agli amici del Movimento.Quel testo è intitolato: Sapevano che i loro genitori
s’amavano (estratto di Parole per il domani, Joseph Wresinski, Città Nuova, Roma, 2001).
«Da molti mesi c’era nell’aria qualcosa. La situazione era
diventata tale che l’uomo non poteva più sopportarla, perché la disoccupazione,
la fame e lo sbandamento della famiglia l’umiliavano. Un giorno era partito, e,
da tre settimane, era fuori, i vicini dicevano: «con un’altra»; la moglie
diceva: «forse no ».
Quella sera tornò per prendere le sue cose. Avvertito dai
viciini, ero venuto anch’io ed ero rimasto lì, in piedi, in mezzo alla stanza in
disordine. Nessuno parlava. I bambini si arrampicavano sulla poltrona sfondata,
si spingevano e cadevano all’indietro e poi ricominciavano. Lui, il padre,
stava mettendo la sua biancheria alla rinfusa in due valigie aperte che aveva
messo sul tavolo. Tutto appariva ridicolo: la poltrona, i bambini, il padre,
il tavolo, le valigie, la biancheria.
Per lui, non trovavo una sola parola che corrispondesse
alla grandezza della sua vergogna e della loro tristezza. Io sapevo che quella
nuova partenza era una falsa uscita di scena. Ero sicuro che aspettasse che sua
moglie e i bambini gli chiedessero di restare. Ma loro come me non osavano
dirgli niente. La nostra intuizione di poveri sapeva che le parole
deformano, sminuiscono i sentimenti, quasi sempre li sviliscono.
Alla fine lo serrai nelle mie braccia e lo strinsi forte,
fortissimo… Per fargli sentire quanto l’amavamo. Fu allora che sua moglie,
nascosta nell’ombra, riemerse dalla stanza in fondo. Vi si era rifugiata come
un animale ferito, per mascherare la sua pena, la sua solitudine, la sua
miseria. Il suo viso era in fiamme, gonfio, deformato, ma talmente bello, come
se nella tristezza il viso dei poveri conservasse quel non so che di fierezza,
di volontà di vivere e di amare.
Indicando i bambini, disse semplicemente: «Sono tre
giorni che la credenza è vuota… Non ho chiesto niente a nessuno». Così
aggrediva fatti e dolore, con poche parole incisive. « È venuto a prendere le
sue cose. Ora riparte, che ne sarà di noi?». Non era a me che si rivolgeva,
ma, indirettamente, a lui. Io stringevo sempre l’uomo tra le braccia. I sette
bambini continuavano a giocare nel loro angolo. Attorno a quel tavolo dove si
decideva l’avvenire di una famiglia, tutto poteva provocare il dramma: le
lamentele della donna, l’indifferenza dei bambini, il silenzio di quell’uomo
umiliato…
« Rimarrà – dissi -altrimenti non sarebbe tornato». Li
condussi in cucina, dove non c’era traccia di cibo né alcun odore di pietanze.
Gli ultimi giorni, i bambini avevano raccattato tutto, pulito tutto fino a
grattare il fondo della credenza finché il luogo dei pasti non era più da loro
ma dai vicini. Questi li avevano accolti a turno, li nutrivano, lamentandosi
però per la partenza dell’uomo. Davano la colpa ora all’uno, ora all’altro,
come se la disoccupazione non esistesse, come se non avessero provato la fame,
come se non avessero provato la vergogna.
Ora il silenzio era rotto. Eravamo lì, uno seduto, l’altro
in piedi. «Anche io ho sofferto», disse l’uomo. « E noi ?» disse la donna. «
Io ho lavorato», ribatté lui. «Allora hai dei soldi ?» Lui non rispose.
All’improvviso comprese che se lui fosse ripartito, lei sarebbe rimasta lì
senza denaro e che avrebbe supplicato, che avrebbe mendicato, nonostante lo
negasse, per far mangiare i suoi figli. Allora, in un singhiozzo: «Ma lo sai
che ho venduto una scatola di piselli, per scriverti » Quella scatola era un
simbolo, il grido della disperazione, il segno del sostegno che i vicini le
avevano dato. Averla venduta, era la rivelazione di un amore insondabile che
relega in secondo piano la fame, la sofferenza, la vergogna.
Di nuovo non parlavamo più. Era stato detto tutto. Ogni
altra parola sarebbe stata inutile.
Quando li lasciai, sapevo che lui non sarebbe più partito,
che era ormai abbastanza forte per superare gli scherni dei vicini, perché
l’uno e l’altra si erano di nuovo ridati l’amore. Sulla soglia, la piccola di
sette anni mi teneva per mano e mi dava dei colpetti, come per dirmi «grazie». E io pensavo a quella scatola di piselli venduta a poco più di un franco per
comprare un francobollo, per scrivere a quell’uomo che fuggiva la famiglia, per
dirgli di tornare in pace, che era ancora amato. Quella dichiarazione d’amore,
i bambini l’avevano capita? Credo di sì. Del resto, non avevano bisogno di
quella prova: lo sapevano, era scontato che i genitori si amavano.
Quale segreto si nasconde nel cuore dei poveri che noi
neanche supponiamo? Quale amore può unirli fino a questo punto?»
Che cosa ci dice quel messaggio, sul tema di oggi: “Miseria e
misericordia”? Cercherò di rispondere appoggiandomi su una meditazione dello
stesso padre Joseph nel corso di un ritiro spirituale nel 1980, vicino a Lione.
Nella nostra vita, quando siamo in mezzo ai poveri spesso siamo presi
dai bisogni, sollecitati ad intervenire, agire, fare… e perciò, spesso, le loro
parole non arrivano fino al nostro cuore. Ascoltiamo i loro bisogni e non
vediamo le loro speranze. Non facciamo nostre le loro aspirazioni.
Che cosa faceva correre i malati, i sordi, i muti, i mendicanti dietro
a Gesù? Che cosa si aspettavano in risposta al loro grido: «Salvaci,
guariscici, Gesù di Nazareth!». Senza dubbio, aspettavano di essere guariti,
sognavano un regno in cui gli uomini non avrebbero più avuto fame, in cui la
giustizia sarebbe stata stabilita una volta per tutte, in cui l’uguaglianza
sarebbe stata la regola dei rapporti fra gli uomini.
Era forse ciò a cui essi tendevano, era quello in cui speravano… quando
chiedevano al Signore di guarirli, era proprio questo che domandavano al
Signore, sia chiaro… Sì, ma chiedevano il perdono… il perdono dei loro peccati,
il perdono di Dio.
E lo chiedono ancora oggi: in questo mondo desacralizzato, laicizzato,
i più poveri hanno mantenuto l’aspirazione alla purezza, alla purificazione.
Questo appello al perdono ci permettere di gettare uno sguardo sulla
vita dei più poveri nel suo più profondo, di incontrarli. La loro vita è fatta
di ingiustizie. La vita concessa al sottoproletariato, è il frutto di un mondo
che dimentica i diritti dell’uomo. È la conseguenza della sordità di coloro che
non sentono il grido dei diseredati, della cecità di coloro che non ne vedono
la sofferenza, dell’indifferenza di coloro che non amano. La loro vita è una
vita minata a causa dell’ingiustizia che pesa su di essa, minata dalla violenza
delle dispute, delle ingiurie, delle percosse: eppure hanno troppo bisogno
degli altri per potersi permettere di restare in uno stato di rottura
permanente! Essi hanno, di conseguenza, continuamente bisogno di riconciliarsi
con l’ambiente loro circostante. Hanno senza posa bisogno di perdonare per
potere sopravvivere e di sollecitare il perdono. È una necessità vitale per i
più poveri. Il che è ben comprensibile: solo il vicino è loro prossimo. Non c’è
nessun altro nell’immediatezza dell’ambiente circostante. Le condizioni di vita
che sono loro imposte, li costringono a fare appello a coloro che li
circondano, a trovare nel vicinato qualche soldo per cavarsi dagli impicci, il
pane quotidiano…
Il perdono dunque, è una maniera di vivere nel mondo della miseria.
Forzati a perdonare, i più poveri allo stesso tempo richiedono il perdono.
Scrive ancora padre Joseph: «Chiedono il perdono: “Signore, perdona a noi come
noi perdoniamo”, ha detto Cristo… Come se conoscesse il mondo della miseria, il
Signore! Noi perdoniamo e noi abbiamo bisogno di essere perdonati, poiché
vivere da sottoproletari, significa anche non sapere crescere i propri figli,
non poter predisporre loro un avvenire differente dal proprio. Significa essere
logorati dalla malasorte che li stringe o che li aspetta. “Il mio peccato, mi
diceva una mamma una sera di un venerdì santo, è di avere messo al mondo dei
bambini che domani saranno dei bambini della miseria”.
Vivere da sottoproletari, significa anche mantenere in fondo al cuore
del risentimento, talora persino dell’odio, per una madre che non vi ha amati,
e che vi ha abbandonati; per delle suore che sono state dure con voi,
implacabili quando eravate bambini;dei
educatori ignoranti; dei medici che vi hanno umiliati un tempo. Penso ad un
dentista che aveva umiliato mia madre quando noi eravamo bambini e di cui lei
mi parlò qualche giorno prima di morire. Più di trenta anni dopo, quel
risentimento, quell’odio, talora scorrono nel cuore dei poveri!»
I poveri però non possono vivere di odio e di ribellione.Non possono vivere neppure di disonestà, di
menzogna. La vita li costringe sì a dissimulare, a mentire, a rubare, ad
ingannare, a fare la commedia, a fare finta. Ma essi ne soffrono, ne soffrono
terribilmente. Si sentono vuoti, umiliati, allora si volgono verso la Chiesa.
Non possiamo non essere attenti alla richiesta dei miseri: «liberaci
dal male». Questo male distrugge i poveri, li sprofonda nell’angoscia,
indurisce il loro cuore, li rinchiude in se stessi, li fa bestemmiare. Quante
bestemmie devono a noi, perché non sono stati ascoltati!
Incontrando i poveri che Gesù Cristo incontrava, avendo gli stessi
problemi di quelli che andavano da lui e lo pressavano da tutte le parti, noi
non possiamo accettare che degli uomini vivano nel peccato. Non possiamo
accettarlo, tanto più che Cristo non l’ha accettato, lui che tutto ha assunto
dell’uomo, tranne il peccato.
Si scopre, in questa meditazione di padre Joseph il legame profondo tra
miseria e misericordia. Tale misericordia è probabilmente il bisogno
essenziale, l’attesa la più profonda dei poveri. Ne hanno bisogno come del
pane, del cibo, dell’alloggio.
Concluderò riprendendo le parole di un ragazzo povero, che alla fine di
un campo estivo al quale aveva preso parte, dice al sacerdote che accompagnava
questo gruppo di ragazzi: «padre, ho capito che cosa è la misericordia! La
misericordia, dice in francese, è Dio che “lance des cordes vers notre
misère”, è Dio che lancia delle corde verso la nostra miseria. Quando mi è
stato raccontato quest’episodio mi sono tornate in mente le parole del Signore
Gesù: «Ti benedico, o Padre, Signore
del cielo e della terra, perché hai tenuto nascoste queste cose ai sapienti e
agli intelligenti e le hai rivelate ai piccoli».