Il caso Spotlight è un film contro l’indifferenza della società

L'intervista a Carlo Tagliabue, regista e docente universitario di cinema, sul film premiato con l'Oscar, che ha raccontato l'inchiesta del Boston Globe sulla pedofilia nella Chiesa americana. Una pellicola che parla di giornalismo, tra valori e criticità

“Senza giornalismo non c’è democrazia”, dice un vecchio adagio che eleva il mestiere del cronista fino a renderlo uno dei più nobili per il servizio offerto alla società civile. Il caso Spotlight, pellicola che ha vinto l’Oscar come miglior film e come miglior sceneggiatura originale, racconta il mondo dell’informazione dall’interno, analizzandone criticità, valori e sfide per un futuro sempre più incerto. Come si svolge un’indagine giornalistica? E’ possibile oggi parlare di inchiesta? Esiste ancora un giornalismo che sfida i poteri forti mettendoli in crisi con la verità? Tutti interrogativi che il team Spotlight del quotidiano americano The Boston Globe ha vissuto realmente, 14 anni fa, indagando sugli scandali di pedofilia nella Chiesa avvenuti a Boston dagli anni 70’ fino al 2002 e accusando il cardinale Bernard Francis Law di omertà e connivenza con le violenze dei sacerdoti.

L’inchiesta che valse il Premio Pulitzer nel 2003 è stata riproposta nelle sale cinematografiche dal regista Tom McCarthy, conquistando il premio più importante di Hollywood grazie ad un cast d’eccezione: Liev Schreiber è Marty Baron, direttore del Globe, Micheal Keaton è nel film Walter Robinson, caporedattore del team Spotlight aiutato dai cronisti Sacha Pfeiffer (l’attrice Rachel McAdams), Michael Rezendes (Mark Ruffalo) e Matt Carroll (Brian d’Arcy James). “Questo film entra in clima cultural-politico che ha sete di giustizia per i crimini commessi da una parte della Chiesa – ci spiega Carlo Tagliabue, regista televisivo, presidente del Centro Studi Cinematografici e docente di cinema all’Università di Perugia e all’Università Salesiana di Roma – forse arriva tardi, perché con Papa Francesco il mondo ecclesiale sta prendendo una posizione forte su questi temi, ma è una vicenda che andava raccontata”.

Giornalismo e cinema, il caso Spotlight si inserisce in un filone americano già noto al grande pubblico, che racconta le imprese di un mondo dell’informazione che protegge ancora la democrazia: “Come valse per “Tutti gli uomini del presidente” , “Good night, and good luck” e tanti altri, Spotlight mette ancora al centro la figura dei cronisti che cambiano la realtà e si contrappongono ai poteri forti – ci racconta Tagliabue – del resto in America amano ancora la grande interpretazione di Bogart in “L’ultima minaccia”, quando nella scena finale del film risponde alle minacce dell’assassino, un ricco magnate, con la celebre frase: “E’ la stampa bellezza e tu non puoi farci niente”.

La vera forza del film, ci spiega il cineasta è nella sua grande ricchezza di contenuti e soprattutto nella critica feroce alla comunità, non solo alla Chiesa. Idealmente si rivolge a tutti noi: “Il film inizia con uno spaccato della Boston degli anni ’70 e con un poliziotto rassegnato all’idea che nonostante la palese colpevolezza di un prete “tanto non succede nulla”. E finisce con i giornalisti che quarant’anni dopo fanno autocritica perché potevano intervenire prima sui casi di pedofilia. Noi siamo tutti responsabili, certe cose non nascono da sole e solo quando la società si ribella c’è il cambiamento. E’ un film contro l’indifferenza e accusa perfino i giornalisti-eroi. Perché non abbiamo parlato prima? Si chiedono i cronisti nel film. C’è una connivenza che coinvolge tutti, a dimostrare che sono gli atteggiamenti culturali sbagliati a creare sistemi sbagliati”.

Eppure oggi, il giornalismo d’inchiesta sembra sempre più una chimera, quasi superato dalle nuove tecnologie, dalla concorrenza e dalle spese insostenibili per molti giornali. Anche il pubblico è cambiato, vuole notizie in tempo reale, in una corsa che spesso abbassa il livello qualitativo del lavoro giornalistico. “La crisi del mondo dell’informazione deriva forse dall’utenza – è la chiave di lettura di Tagliabueabituata ad avere giudizi sommari, alle etichette e agli aggettivi. L’inchiesta è il cuore del giornalismo, ma fa difficoltà in un mondo in cui non abbiamo più memoria storica. Stiamo perdendo la necessità e la voglia di “scavare” in una società in cui è tutto sempre più superficiale”.

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