Mi piace immaginare Francesco Totti come un bambino in cortile che fa finta di non sentire la mamma che lo chiama e continua a giocare fino a tardi. In questo personale fermo-immagine c’è la storia di un campione che ha vissuto il suo “distacco” in un pomeriggio di fine Primavera fatto di cori, colori e lacrime. Quel giro di campo, l’abbraccio della Curva Sud, la lettera ai tifosi: è stato tutto molto emozionante, piaccia o meno il calcio, piaccia o meno la Roma. Totti ha dato la sensazione che quel campo verde e quel pallone significano troppo per lasciarli così, quando ancora hai l’entusiasmo di un ragazzino nonostante i 41 anni. “Ora è finita veramente – ha detto – Mi levo la maglia per l’ultima volta e per l’ultima volta scenderò quelle scale, entrando in quello spogliatoio. Anche se non sono pronto a dire basta e forse non lo sarò mai”.
Qualcuno l’ha svegliato da un sogno che durava 25 lunghi anni, un amore a tinte giallorosse che ha caratterizzato tutta la sua vita. Totti è la Roma, la Roma è Totti: per un quarto di secolo il capitano ha legato il suo nome in maniera indissolubile a quello della società che l’ha scoperto e poi lanciato e che lui ha amato e sempre difeso. Non ce ne vogliano grandi campioni come Del Piero, Maldini e Zanetti, ma una festa come quella che la Roma e i romanisti hanno organizzato per Totti non si è mai vista nel calcio nostrano. Forse perché Francesco è stato più di un capitano, più di un goleador, più di un simbolo. È stato un figlio di Roma. Ha avuto tantissimi avversari, eppure nessuno l’ha mai odiato. Francesco ha disegnato calcio, ha reso semplici delle giocate pazzesche, ha fatto coi piedi quello che un grande pittore fa con le mani: arte. Ha espresso i suoi sentimenti attraverso il pallone, rimanendo sempre una persona umile e alla mano mentre il mondo gli diceva che era l’ottavo re di Roma.
Il suo numero, il 10, voleva dire genio, classe, passione, istinto, rosicata, simpatia, ironia, appartenenza. In una parola: romanità. Francesco Totti è il grande rimpianto di tanti, perché solo e soltanto i romanisti hanno avuto Francesco Totti. Ricordatecelo quando, da tifosi di qualsiasi squadra, ci attaccheremo al primo idolo di passaggio. In un calcio che corre e divora tutti, in una società che non pensa altro che a consumare, Totti è rimasto immutabile ai segni del tempo, con i suoi vizi e le tue virtù, con i suoi significati e la sua storia. Insieme a lui, e sembra un beffardo gioco del destino, anche Spalletti ha lasciato la Roma. Un tecnico amato e odiato, in grado però di stabilire il record di punti (87) e di gol (90) nella storia del club, il tutto impreziosito dal secondo posto. Se ne è andato con più insulti che applausi, soprattutto per una gestione di Totti che ha fatto storcere il naso a molti, a dimostrazione di quanto la piazza romana sia assurda ed eccessiva, nelle gioie come nelle problematiche.
Per quanto riguarda il campo c’è un’altra bella favola che va raccontata. Il Crotone si è salvato battendo 3-1 la Lazio e completando una rimonta fatta di 20 punti nelle ultime 9 partite, ma forse sarebbe più giusto dire che ad essere salva è la credibilità del calcio italiano. Non ce ne voglia l’Empoli, ma per decenni abbiamo visto squadre “scansarsi” quando le partite contavano solo per gli avversari e domenica il Palermo, già retrocesso, ha battuto i toscani condannandoli alla B. Non è solo questione di campo (e fino a qui qualcuno potrebbe dire: e la Lazio allora?), perché perdendo, il Palermo, avrebbe potuto guadagnare più soldi dal “paracadute”, quella strana regola che prevede un lauto compenso a chi lascia la Serie A: oltre ai 25 milioni già previsti, la società siciliana ne avrebbe intascati 15 in caso di mancata promozione dalla B alla A nella prossima stagione, ma con l’Empoli di mezzo (che da più di 3 anni stava in A) la torta è spartita a metà (25 e 25) già da ora e non ci sono altri bonus per il futuro. Continuiamo a credere che questa sia una norma contorta e assurda, perché al di là della solidarietà va contro ogni logica sportiva-meritocratica.