31 Mag 2017

Amazzonia. Continua la battaglia degli indigeni contro lo sfruttamento del petrolio

Nel 2009 i Kichwa hanno bloccato le navi sul fiume Napo, per cercare di fermare l'inquinamento e la morte. Ma da allora ben poco è cambiato

Sostare sulla limacciosa spiaggia della comunità nativa Kichwa di Copal Urco, poco prima dell’alba, svela perché l’Amazzonia crei leggende. Il vasto fiume Napo scivola silenzioso, quasi invisibile, nelle tenebre. Insetti e rumori animali rompono la silente oscurità della foresta. La giornata è appena iniziata, ed è già tutto umido. Mentre il sole sorge e l’oscurità si ritira, in lontananza si scorge una canoa, che riporta un uomo di ritorno della pesca. Tutto il paesaggio, ormai illuminato, rivela alberi maestosi e stretti. La luce, anche quando diviene accecante, non riesce a farsi largo nella giungla più fitta. Il fogliame caduto dagli alberi, muro impenetrabile, lascia tutto e tutti al di fuori.
 
Il 4 Maggio 2009, gli indigeni kichwas guardano sospetti l’arrivo di una Nave della Marina peruviana (foto si copertina).
“L’ultima volta che una nave ha solcato il Napo, fu nella Guerra Perù-Ecuador del 1941”, dice un anziano.
Ecco dove cominciano i racconti: il villaggio di Copal Urco, culla della comunità nativa kichwa ed una delle più antiche di questa  regione (Loreto), si staglia su una piccola montagna che si erge sul lato destro del fiume Napo che collega il Perù all’Ecuador. Qui vivono poche centinaia di agricoltori e di pescatori indigeni.
 
La foresta amazzonica peruviana, seconda solo a quella brasiliana, consta di 70 milioni di ettari dei quali i tre/quarti ricchi di petrolio e gas: ciò ha dato avvio ad un ampio programa di sfruttamento di tali risorse, e non da oggi. Si pensi che la prima azienda petrolifera sbarcata ufficialmente in Perù nel 1945, di origine tedesca, aveva intrapreso l’attività estrattiva ben prima della seconda guerra mondiale. Questo ha determinato una terza ondata immigratoria europea, dopo quella del 1542, a seguito della scoperta del Rio delle Amazzoni, e quella del XX secolo che provocò un grande etnocidio dei popoli indigeni derubati degli alberi di caucciù dai quali veniva estratta la gomma.
Sono sttai creati 64 blocchi di esplorazione, conosciuti come lotti, di cui otto dal 2004. “L’Amazzonia peruviana sta vivendo un’enorme ondata di esplorazione di idrocarburi”, afferma Matt Finer, coautore di uno studio sui progetti di petrolio e gas nell’Amazzonia occidentale della Duke University.
 
L’estrazione dell’olio non è una cosa semplice. Comprende elicotteri, chiatte, sbarre di strada, piattaforme di trivellazione, pozzi e condotte. La tecnologia è più pulita di prima, ma ancora inquina le vie navigabili e spaventa il gioco e la vita dei popoli. E i lavoratori portano ancora germi, che minacciano le tribù senza alcuna immunità alle malattie degli estranei. La storia precedente dell’Amazzonia ci ricorda che l’influenza e altre malattie hanno provocato da parte dei conquistatori l’eliminazione da gran parte della popolazione indigena dell’America Latina e più recenti interlocutori, missionari, scienziati e giornalisti hanno causato conseguenze mortali nelle comunità isolate e indigene.
Dopo le incursioni degli uomini petroliferi nel territorio di Nahua negli anni ’80, più della metà delle tribù si è ammalata a morte. “Se le aziende entrano, è probabile che distruggeranno gli indigeni completamente”, dice Stephen Corry, del gruppo di difesa Survival International. Questo si legge nella inchiesta fatta per il giornale inglese “The Guardian” nel Luglio 2009. 
 
Il territorio dell’Amazzonia peruviana è quasi interamente dato in concessione. È un problema serio, di cui lo Stato non parla mai.
Nel Napo, la linea frontale di questa battaglia esistenziale è il lotto 67. Un pezzo di giungla nel bacino del Maranon, nel Perù nordorientale, che comprende i campi petroliferi Paiche, Dorado e Pirana, che contengono barili di circa 300m, dove una società anglo-francese, Perenco, detiene diritti esclusivi. Dal 2008 ha intenzione di spendere 2 miliardi di dollari – il più grande investimento del Paese – per forare 100 pozzi da 10 piattaforme. Il greggio sarà spedito e trasportato attraverso condotte per 600 miglia fino alla costa del Pacifico. Sono state fatte ampie prove sismiche e costruite le installazioni. Le barche attendono i primi barili.
 
 
Ma per comunità autoctone come Copal Urco e tutta la Federazione delle Comunità Native del Messo Napo, Curaray e Arabela (FECONAMNCUA), questo implica la morte della loro cultura e l’invasione dei loro territori.
Inoltre un altro tema grave è quello della presenza dei gruppi indigeni non contaminati. Perenco respinge queste affermazioni come insinuazioni e disinformazione da parte di gruppi contrari allo sviluppo económico dicendo che: “Tutto questo è simile al mostro di Loch Ness. Molte chiacchiere, ma mai nessuna prova”, dice Rodrigo Marquez, responsabile regionale latino-americano di Perenco. “Abbiamo fatto studi molto dettagliati, per accertare se ci sono tribù non contattate perché sarebbe una questione molto grave. L’evidenza è inesistente”.
Perenco resta convinta dell’idea che è facile costruire teorie di cospirazione e che quando si parla della presenza degli incontaminati si esprimono solo opinioni, e chiede agli scienziati di produrre prove di quello che affermano.
 
In questo tema chi ha l’ultima parola? I critici dicono che “nemmeno il Ministero dell’ambiente o della cultura hanno influenza nei confronti dei soggetti più potenti che guidano la corsa all’olio e dell’impatto che questo avrà sui popoli indigeni”, afferma Richard Rubio, presidente della federazione indígena dal Napo.
Il governo del Perù non è imparziale e non incoraggia gli studi di impatto ambientale veramente indipendenti, afferma Jose Luis de la Bastida, specialista di petrolio peruviano presso l’Istituto World Resources di Washington.
 
In questo contesto, Lima è e si sente molto lontana dall’Amazzonia. È solo una città capitale costiera di quasi nove milioni di persone circondate dalle baraccopoli, il suo centro ha Starbucks, grattacieli lucidi, uffici governativi intelligenti e alcuni dei migliori ristoranti del Sud America. Storicamente ha guardato verso l’esterno dell’Oceano Pacifico e raramente ha pensato ai 300.000 abitanti delle foreste “nativi”, poco più dell’1% della popolazione. Ha avuto anche meno motivi di riflettere sulle tribù incontaminate oppure sull’impatto della esplorazione petrolifera. In questo contesto il presidente Alan Garcia Perez ha decretato le leggi che impegnano l’Amazzonia in progetti di petrolio, gas, minerali e biocarburanti.
 
 
Di fronte a tutto questo i “nativi” si sono alzati. Sparpagliati, impoveriti e emarginati, hanno organizzato proteste. Diverse comunità hanno sfidato la politica estrattiva del governo.
 
Il lunedì mattina del 4 Maggio 2009 hanno bloccato le condutture, le strade e le vie navigabili. Il presidente li ha denunciati come sabotatori “ignoranti” e poi ha ordinato alle forze di sicurezza di sollevare i blocchi.
 Alan Garcia Perez, dif ronte all’indignazione e alla forza degli indigeni, ha però revocato due dei decreti più controversi, il 1090 e il 1064, che avrebbero aperto l’Amazzonia alle piantagioni di biocarburanti. I gruppi indigeni hanno sospeso le proteste, ma i progetti di petrolio e gas sono ancora in corso. “Lo scenario futuro rimane terrificante: l’Amazzonia peruviana è ancora coperta da concessioni”, afferma Finer, coautore dello studio Duke.
Le compagnie petrolifere e il governo peruviano sono impegnate – in particolare per il l’ambìto lotto 67. 
 
Dopo otto anni a Roma, parlando con un testimone di quello chi vive le popolazione napuruna, Florindo Barisano, della ONG italiana del PRO.DO.CS (Progetto Domani: Cultura e Solidarietà), abbiamo ricordato le parole del Padre Juan Marcos Mercier che 40 anni fa diceva: “Ai Runa non importa della loro cultura indígena, vogliono vivere come i bianchi e come la società dominante, perchè si sentino inferiori essendo indigeni”. E parlando della similare situazione nell’Ecuador, questo missionario diceva:”Il disastro ecologico dell’Amazzonia è evidente e non solo viene voglia di piangere, ma anche di litigare con più forza. Ma bisogna essere intelligenti, astuti, come lo Yawati o il Coniglio per litigare contro tutte quelle multinazionali che hanno spazzato la selva”.
Il dottor Barisano è una delle pocche persone in Italia che conoscono la realtà del Napo. Visita il Napo da 30 anni. “Che difficile è andare controcorrente!”, diceva mentre veniva alla memoria il Conflitto Amazzonico dal 2009 in Perù. Anzi, “quello che raccontava Padre Juan Marcos, che io pensavo fossero storie esagerate, erano la vera realtà. Era per me incredibile vedere che il fiume che io ho solcato decine di volte in Perù, era lo stesso che ho visto passando da Coca a Nueva Rocafuerte dal lato ecuadoriano, ed è motivo di tristezza vedere come potrebbe essere trasformato il lato peruviano del Napo nei prossimi anni”.
 
Su questa situazione ci sono molte cose da dire. Nelle Missioni cattoliche presenti in tutto il Napo si sta da tempo discutendo sui rischi e le minacce insite nell’attività dell’industria estrattiva in questa parte della Amazzonia Sudamericana.
I missionari che lavorano a stretto contatto con le comunità indigene sono testimoni viventi di come si sviluppano e vengono attuate le politiche in virtù dello “sviluppo pro-bianco”. Ad esempio, il Millennium Cities Project – Manaos, vuole dragare il Napo. In realtà, vi è grande preoccupazione da parte dei popoli dell’Amazzonia di questa zona del pianeta: vogliono il dialogo come Nazione Kichwa. Vogliono incontrarsi per discutere i loro problemi. La verità è che le popolazioni indigene dell’Ecuador hanno sofferto molto di più le conseguenze dell’industria estrattiva petrolifera. Ci sono casi giudiziari terminati con condanne come i casi della Texaco e di Sarayacu. Gli indigeni della zona peruviana non hanno ancora avuto esperienze forti analoghe.
 
Il conflitto che si è verificato nel maggio 2009 nel Medio Napo, quando una grande nave della Marina di Guerra peruviana e l’industria petrolifera Perenco si scontrarono con gli indigeni, che avevano operato un blocco del fiume Napo, anche se poteva sembrare un fatto importante, purtroppo non lo è stato. Tutto il dialogo ed i tavoli di lavoro tsono terminati lì.
Alcune comunità, che potevano beneficiare dell’estrazione del petrolio, non si sono unite alla lotta ed alla protesta. Ad oggi,quasi nessuna delle comunità indigene peruviane del Napo ha ricevuto il supporto diretto promesso all’epoca dalle compagnie petrolifere.
 
Nel Napo peruviano ci sono molte cose da analizzare. Continueranno ad essere i viaggiatori, gli stranieri, i visitatori, i turisti che ci diranno e confermeranno quello che i missionari stanno dicendo da molto tempo…? C’è davvero la volontà di lavorare con i popoli indigeni…?  Probabilmente i governi di turno termineranno i loro mandati con le loro tasche piene, a scapito delle risorse di tutti. Forse il linguaggio di inclusione continua a far sognare e gli stati del Perù e dell’ Ecuador continuano a dare somme irrisorie di denaro alle persone dicendo che stanno facendo un grande piano per combattere la povertà e la malnutrizione. Di fatto questa domanda è fondamentale: si sta rispetando la Convenzione 169 dell’OIT e la legge che proteggono ai popoli indigeni? Ma quello che accade va ben al di là.
 
 
La malnutrizione si aggrava con l’inquinamento dei fiumi. Le acque sono inquinate e né lo Stato né le aziende che si definiscono leader sociali vogliono farsi carico di questa patata bollente. Il livello di istruzione è molto basso, la sanità completamente a terra. Se la salute di questa parte del mondo non è nel caos più totale lo dobbiamo solo grazie al lavoro della Missione dei Cappuccini in Rocafuerte – Napo e la Missione Cattolica di Santa Clotilde – Perù, dove gli Oblati di Maria Immacolata, i Padri Norbertini stanno offrendo assistenza sanitaria di qualità da 35 anni fa.
Bisogna stare tutti uniti a lavorare con la nazione Kichwa. Bisogna scommettere per il dialogo e per un Progetto di Vita Kichwa per i popoli del Napo ecuadoriano e peruviano. La lettera di Tarapoto del 01 Maggio 2017 ha aperto per tutta l’Amazzonia una nuova fase e lanciato la sfida di lavorare attraverso la Rete Pan Amazzonica (REPAM): “come fermare il processo di distruzione dell’Amazzonia?”.
 
 
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