È bastata una protesta da parte di un gruppo di studenti a esporre nuovamente il regime di Isaias Afeworki, presidente dell’Eritrea dal 1991, alla gogna mediatica internazionale. Ad Akria, un quartiere nella periferia di Asmara (capitale del Paese), lo scorso 31 ottobre dei soldati sono entrati in una scuola islamica, la Diaa Islamic School, sparando sugli studenti che protestavano pacificamente contro la sospensione delle ore di religione e il progetto di far passare la gestione dell’istituto all’amministrazione locale. I gruppi di opposizione hanno fatto sapere che sono morte 28 persone, il ministro dell’Informazione eritreo Yemane Gebremeskel ha invece scritto in un Tweet che «una piccola protesta in una scuola sia stata domata facilmente e senza nessuna vittima». L’ambasciata degli Stati Uniti ha segnalato colpi di arma da fuoco.
Difficile quantificare il numero delle persone finite in manette. Che sia una o mille, è certo che verranno giudicate dai tribunali speciali, che Afeworki ha istituito nel 1996, composti da soli giudici militari, dove non sono ammessi avvocati e non esiste alcuna forma di appello. In solidarietà a queste persone, la manifestazione si è ramificata in tutto il Paese (in cui non esiste la libertà di riunione e di protesta), ma la notizia ha fatto il giro del mondo e anche in Italia gli eritrei si sono radunati per dire “stop” alla violenza. A Roma, in Piazza della Repubblica, sabato 11 novembre c’erano più di 150 persone e tra queste Simon (nel video) che in Patria era insegnante di geografia e business economics. Fuggito dall’Eritrea, è stato dimenticato dall’Italia che dovrebbe garantirgli una degna accoglienza in quanto rifugiato politico.
«Lo Stato eritreo sta chiudendo tutte le scuole private» ci ha raccontato. «Ha già chiuso quelle cattoliche e ortodosse e ora anche quella islamica. Noi che siamo fuori dal Paese, dobbiamo far sapere cosa sta succedendo (L’Eritrea è penultima nella classifica sulla libertà di stampa, davanti alla Corea del Nord, e l’informazione è filtrata dal governo ndr). La gente sta scappando dal Paese, ma muore in mare, oppure finisce in Libia dove nelle carceri succede di tutto. Ci serve un corridoio umanitario. Scappiamo non per motivi economici, ma politici e abbiamo diritto alla protezione internazionale. Vogliamo mandare un messaggio all’Italia: non fate accordi con lo Stato eritreo, così sostenete un dittatore”.
La situazione nel Paese pare essere precipitata. Afeworki ha condotto l’Eritrea all’indipendenza dall’Etiopia nel 1991, ponendo fine a trent’anni di lotta armata di liberazione, ma dando il via a 26 anni di dittatura. Il governo dispone di campi di lavoro forzato per chi osteggia il potere politico e impone un servizio militare obbligatorio potenzialmente illimitato per gli uomini e le donne dai 17 anni. Nessuno può avere un passaporto fino ai 60 anni. Chi emigra, lo fa portandosi dietro l’accusa di tradimento con tutte le conseguenze del caso, come ad esempio il rischio concreto che i militari – se non corrotti – possano sparare a vista. Le sanzioni imposte dall’Onu nel 2009 (con l’accusa al governo finanziare il terrorismo islamico in Somalia) hanno impoverito ancora di più un Paese in cui l’emigrazione è altissima. Secondo diverse stime, ogni mese 5 mila eritrei passano il confine con l’Etiopia e fuggono con l’intenzione di attraversare l’Africa e arrivare in Egitto o in Libia, dove parte il viaggio in mare verso l’Europa. Solo i siriani superano gli eritrei come numero di richiedenti asilo, in uno Stato in cui non si hanno notizie e dati certi sull’economia e sulla povertà diffusa. Si sa però che esiste una tassa del 2% sulle rimesse che arrivano dall’estero: chi lascia il Paese, senza volerlo, continua quindi a sostenere economicamente la dittatura.