È il 19 dicembre e mancano pochi giorni a Natale. Salì, una giovane donna di 23 anni, dà alla luce il suo piccolo su una spiaggia libica, lo avvolge in una coperta e insieme salgono su un gommone. Lo stringe forte a sé per quasi due giorni, poi arriva l’ennesima missione di salvataggio della nave Open Arms. Così, la Ong spagnola, dopo aver preso a bordo 307 persone, lancia un appello sui social chiedendo di far sbarcare con urgenza il piccolo Sam e sua madre. È piena notte quando finalmente arriva una buona notizia: il governo di Malta ha deciso di accogliere (non senza difficoltà) Sam e Salì, mentre gli altri sopravvissuti possono anche rimanere lì. In fondo, vere urgenze non ci sono.
«Il presepe vivente dei naufraghi», scrive Nello Scavo, giornalista di “Avvenire”, in seguito al salvataggio di Open Arms. Sam è nato da due giorni, è sporco ed è congelato. Si trova in braccio a sua madre a bordo di un gommone e intorno a loro ci sono donne e uomini sconosciuti (e anche molto poveri).
Una metafora toccante e tragicamente attuale che mi ha spinto a riflettere sul rito del presepe. In particolare, cosa significa “vivere” il presepe oggi, alla luce di questi tristi fatti? In che modo i suoi personaggi “si rivolgono a noi”?
Quando ero bambina una delle figure che mi affascinava di più era Meraviglia, personaggio femminile della tradizione bolognese che, a bocca aperta e con le braccia alzate, guarda stupita la Stella. Ammetto, però, che la mia Meraviglia era particolarmente bella e curata nei dettagli (forse è per questo che da piccola era la mia preferita). Tuttavia, nonostante sia passato del tempo, questo personaggio continua a piacermi. È dinamico ed estremamente intuitivo: capisce quanto è importante quel momento e lo vive profondamente dentro di sé come una novità.
E se anche noi riuscissimo a provare quella meraviglia che accende gioia (e non paura) nei nostri cuori davanti alla nascita di un bambino?
Vorrei concludere questa mia riflessione con la poesia Una volta sognai della scrittrice Alda Merini dedicata a Lampedusa, quella che era l’isola di speranza per molti migranti.
Una volta sognai
di essere una tartaruga gigante
con scheletro d’avorio che trascinava bimbi e piccini e alghe e rifiuti e fiori
e tutti si aggrappavano a me sulla mia scorza dura.
Ero una tartaruga che barcollava sotto il peso dell’amore
molto lenta a capire e svelta a benedire.
Così figli miei una volta vi hanno buttato nell’acqua
e voi vi siete aggrappati al mio guscio
e io vi ho portati in salvo
perché questa testuggine marina
è la terra che vi salva dalla morte dell’acqua.