Nella sala buia il film scorre verso la chiusura, i titoli di coda sono ormai prossimi, ma c’è già chi mugugna, tra gli spettatori.
“Che delusione”, “Tarantino è finito”, “tre ore di nulla”, “non ci ho capito niente”. Questi sono i commenti che piombano inesorabili. Le luci si riaccendono e le critiche scemano, lasciando spazio a visi contratti, delusi, ma soprattutto sorpresi. La sorpresa è l’effetto più comune, ma tutto ciò non finisce qui. “Once Upon a Time” risulta continuare anche fuori dallo schermo, si annida nella testa, proiettando scene sparse nella mente. Fotogrammi che fanno riflettere, elementi su cui rimurginare, ipotesi da tirare in ballo. Tutti pronti a voler immedesimarsi nella mente di quello che risulta essere di nuovo il genio, che mette a dura prova la sensibilità altrui. Questa volta poco sangue, poca azione, è bastato entrare dentro lentamente, quasi in punta di piedi, ne risente forse la trama, lo spettacolo, ma non la suscettibilità del pubblico.
Quentin Tarantino ha appena imposto una lezione durissima al pubblico, forse troppo sicuro di ritrovare gli elementi caratteristici presenti nelle pellicole precedenti.
TARANTINO = SPLATTER. UN’EQUAZIONE SBAGLIATA
Prima precisazione di questa recensione: chi si aspetta o aspettava da “Once Upon a Time” il turbine di azione, sangue e narrazione convulsa tipica del regista, rimarrà o è rimasto probabilmente deluso. La famosa “pallina da pinball impazzita” tipica delle sceneggiature di film precedenti, come Pulp Fiction (1994), Kill Bill (2003) o The Hateful Eight (2015), lascia spazio a scenari introspettivi, intimi, quasi raffinati per raccontare un’Hollywood che non c’è più. La famigerata Hollywood di fine anni sessanta. Possiamo definire l’ultimo lavoro di Tarantino, come un romantico feticismo di particolari raccontati con una cura e una tecnica da far studiare in tutte le scuole cinematografiche esistenti. Il lavoro del regista deve essere compreso verso questa strada, chi cerca una trama consistente, il decollo ufficiale del film, resterà impigliato in quella ragnatela fitta, che lo stesso autore è riuscito a tessere, semplicemente per seguire un piano specifico. Scrivere una profonda lettera d’amore verso il cinema degli anni 60 e tutto ciò che ruotava intorno ad esso. Vizi, virtù, sogni, ma anche orrori, di una Hollywood ridondante.
TARANTINO SCHIACCIA LA MANSON FAMILY
La storia ruota intorno alla figura dell’attore, Rick Dalton, interpretato da Leonardo Di Caprio. Dalton, che non può prescindere dal suo stantman e miglior amico, Cliff Both (Brad Pitt), cerca di ritrovare se stesso e immerso nella Hollywood dei vizi e dei grandi sogni, riflette su una carriera sempre più vicina a raggiungere il completo anonimato. La figura di intesa e unione con il suo compagno di avventure Both, affianca quella fiabesca, quasi leggiadra di Sharon Tate, moglie del regista polacco, Roman Polanski. Nel film Dalton scoprirà di essere vicino di casa della coppia tanto celebrata dai giornali e dalla critica. Nel lungometraggio di Tarantino, Tate è interpretata da Margot Robbie, incredibilmente somigliante all’attrice, realmente esistita.
Ma chi è Sharon Tate? La donna è stata un’attrice statunitense di discreto successo, che rese più solida la sua fama unendonsi in matrimonio al regista Polanski. Nel 9 agosto 1969, la vita dell’astro nascente del cinema fu spezzata amaramente da un tragico omicidio. Tate venne uccisa nella sua casa a Beverly Hills, insieme a quattro amici, dai seguaci di Charles Manson, noto criminale che tra gli anni sessanta e settanta fondò la sanguinaria “Manson Family”, autrice di efferati omicidi per tutto il paese. Al momento dell’assassinio l’attrice era all’ottavo mese di gravidanza.
Altra sorpresa: Manson nel film di Tarantino è una misero puntino, quasi una macchia sporca da pulire immediatamente, al fine di privilegiare la bellezza, il sogno che solo il cinema e l’aria hollywoodiana può regalare ad attori e spettatori. Di conseguenza la sanguinaria “Manson Family” è solo una caricatura di se stessa, raccontata con quello spiccato e divertente humor nero, tanto cara allo stesso Tarantino. Il regista compie quindi un’autentica rivincita, una fiabesca vendetta, ridicolizzando, annullando del tutto la fame di sangue del mostro che terrorizzò l’America per svariati anni. Lo stesso appettito di morte e dolore si riverserà contro la famiglia di Manson.
MENZIONE SPECIALE
Ma che coppia è Leonardo Di Caprio-Brad Pitt? Un duo per palati fini, una propulsione di emozioni, tutta concentrata negli sguardi d’intesa fra i due. Visionario, folle a tratti malinconico Di Caprio; divertente, valoroso e a volte scorretto Pitt. Una miscela ottima, la figura perfetta per raccontare quel divismo hollywoodiano, ancora affascinante, ancora capace di prendere per la gola migliaia di fan e sognatori.
Un film non facile, complesso, un’opera che dimostra essere una profonda dichiarazione d’amore verso i grandi classici del cinema, tanto cari allo stesso Tarantino. Un lavoro tecnicamente perfetto, abilmente suddiviso in piani sequenza mozzafiato, talvolta anche difficili da realizzare, e una fotografia quasi seducente, evocativa. Può piacere e non piacere. Può oscillare tra il capolavoro e il pattume, ma una cosa è certa: vada come vada, Tarantino ha vinto di nuovo, annidandosi dentro la mente di chi ha scelto di viaggiare in un’Hollywood che non c’è più.