La delicata situazione dei diritti umani in piena crisi sanitaria. È necessario vigilare

La risposta all'epidemia potrebbe avere un serio e deleterio impatto sui diritti umani. I casi di Italia, Cina e Ungheria (e non solo), a partire dal lessico usato per raccontarla

«Censura, discriminazione, arresti arbitrari e violazioni dei diritti umani non devono trovare posto nella lotta contro l’epidemia da coronavirus», ha dichiarato Nicholas Bequelin, direttore di Amnesty International per l’Asia. «Le violazioni dei diritti umani ostacolano, anziché facilitare, la risposta alle emergenze sanitarie e riducono la loro efficacia».

La diffusione del virus Covid-19 ha portato a livello mondiale all’introduzione di obblighi che hanno come fine un arginamento del dilagare della pandemia. Vi sono però dei limiti, oltre ai quali tali restrizioni vanno a ledere i diritti dell’uomo, entrando cioè in aperto conflitto con questi.

Abbiamo ricostruito ciò che sta accadendo nel nostro paese, in Cina e in Ungheria, durante e a causa di questa emergenza sanitaria, per quanto riguarda i diritti umani. La limitazione di questi non pare rispondere in tutte le situazioni a necessità, proporzionalità con la situazione di emergenza e infine legalità. E preoccupa il fatto che come unico vincolo vi sia quello temporale, ovvero la prospettiva-promessa che alla fine del periodo di difficoltà tutto tornerà com’era prima.

ITALIA

Parliamo di articoli della Costituzione

Cominciamo dalla nostra esperienza nazionale: come ha risposto l’Italia alla necessità di apporre alcune limitazioni alla normale vita dei cittadini? In risposta all’emergenza sanitaria hanno subito restrizioni la libertà di circolazione, soggiorno ed espatrio (articolo 16 della Costituzione), la libertà di riunione (articolo 17 della Costituzione), la libertà di esercizio dei culti religiosi (articolo 19 della Costituzione) e di insegnamento (articolo 33 della Costituzione), la libertà di iniziativa economica (articolo 41 della Costituzione), e i diritti derivanti dalla garanzia e dall’obbligo di istruzione (articolo 34 della Costituzione).

È concorde però la percezione che tali restrizioni vadano a rispondere ad una necessità, legata a quello che è senza dubbio un bene superiore, ovvero la salute pubblica. Tale diritto è garantito dalla Dichiarazione universale dei diritti umani e contempla il diritto di accedere alle cure mediche e alle informazioni, il divieto di discriminazione nella fornitura di servizi sanitari, il divieto di cure mediche senza consenso. Nessun dubbio dunque riguardo al fatto che quella che viviamo sia una situazione di particolare difficoltà, cha ha legittimato e legittima l’adozione di alcune misure straordinarie limitative riguardo al godimento di libertà individuali. Resta però più difficoltoso individuare i limiti di tale pratica, anche in una situazione di garanzia costituzionale come è quella italiana. Vi è infatti un chiaro limite temporale, che nel caso specifico va dai sei mesi ai due anni.

Delitto contro le nostre libertà?

No, perché tali limitazioni sono legittimate dall’articolo 32 della Costituzione, all’interno del quale è riportato: «La Repubblica tutela la salute come fondamentale diritto dell’individuo e interesse della collettività, e garantisce cure gratuite agli indigenti. Nessuno può essere obbligato a un determinato trattamento sanitario se non per disposizione di legge. La legge non può in nessun caso violare i limiti imposti dal rispetto della persona umana». Ecco dunque che la salute viene posta non soltanto come un bene individuale, ma come patrimonio della collettività. Come tale deve essere dunque tutelato e salvaguardato, anche tramite la limitazione temporanea dei diritti concorrenti con questo per “motivi di sanità o di sicurezza». È un bilanciamento tra diritti molto difficile, e che in Italia è stato oggettivizzato dunque, come visto sopra, dall’effettiva emergenza sanitaria

Il lessico

È stato molto criticato, in questo periodo, il lessico, la scelta delle parole che accompagnano il racconto di questa emergenza sanitaria. È rassicurante, in una situazione che ci è sconosciuta per gravità, utilizzare un lessico già conosciuto, che pare adatto ad un’emergenza di questo tipo. Un lessico di tipo bellico. Ecco che il virus si trasforma nel “nemico”, gli ospedali in “trincee” , i medici in “eroi”. Ma davvero siamo in guerra? Qualcuno richiede maggiore chiarezza di lessico in quella che – ricordano – è un’emergenza socio-sanitaria. L’uso della retorica bellica viene infatti accusata di essere servita a giustificare la sospensione delle libertà individuali, a far metabolizzare lo “stato di eccezionalità”. Un lessico bellico introduce la retorica del sacrificio, dello stare in casa per gli altri. Sono in molti a richiedere una maggior consapevolezza e responsabilità di un uso di parole che possano essere adeguate.

Adatto è invece un lessico bellico per quanto riguarda una ripresa “post bellica”, che possa andare a delineare con minuziosa attenzione i nuovi scenari geopolitici mondiali, soprattutto a livello economico.

CINA

Andiamo al principio, ossia al luogo dove pare abbia origine tutto: Wuhan, in Cina.

Censura all’inizio dell’epidemia

Come è emerso di recente, il governo cinese pare aver fin da principio soppresso qual si voglia informazione legata al Covid-19, per non creare panico, probabilmente con la speranza di poter gestire tutto “in casa” senza allarmare gli altri paesi e dunque danneggiare la propria immagine. Ciò ha condotto a rischi per la salute pubblica, dovuti alla non informazione. I medici di Wuhan che a fine dicembre avevano condiviso con i colleghi le preoccupazione riguardo ai sintomi dei pazienti sono stati zittiti e addirittura puniti dalle autorità. Assai conosciuta è la vicenda del medico Li Wenliang.

Il controllo di informazioni e la “resa dei conti” con i dissidenti

Sharon Hom, direttore esecutivo di China Human Rights, spiega come l’accesso alle informazioni, e le restrizioni sul contenuto di queste ultime, siano i metodi principali che il regime utilizza per un controllo sociale, a stampo repressivo. Un recente studio del gruppo canadese di ricerca informatica Citizen Lab ha seguito in modo attento come siano state intensificate le azioni repressive del governo di Xi Jinping. Inoltre l’applicazione di messaggistica cinese WeChat e l’app di streaming video YY hanno bloccato alcune combinazioni di parole chiave, che porterebbero a risultati che includano critiche al presidente riguardo la gestione dell’emergenza sanitaria.

Gravissime sono alcune sparizioni di cittadini, eventi monitorati da China Human Rights, avvenute tutte  durante l’epidemia. I cittadini coinvolti si erano macchiati di aver pubblicato sui social network opinioni critiche sulle risposte inadeguate delle autorità. Ricordiamo qui la sparizione di Chen Qiushi, avvocato cinese per i diritti civili. Il 7 febbraio è stato portato via dalla sua abitazione. Doveva essere accompagnato “in quarantena”. Se ne sono perse le tracce. Ugualmente non si hanno più notizie di Fang Bin, giornalista contrario al regime, così come Li Zihua, ex giornalista della rete pubblica “Cctv7”, scomparso il 26 febbraio.

Xenofobia

Per quanto riguarda il sentire comune, in particolar modo riguardante la persona-nazione associata al virus-nazione colpita, sono stati registrati fenomeni di xenofobia, prima legati agli abitanti di Wuhan, poi della Cina tutta. Con l’allargamento del contagio si è diffusa anche la pericolosa paura per “l’untore”. L’Italia ha vissuto fenomeni similari, quando ad essere zona rossa era la nazione intera.

Aiuti come propaganda, tentativo per cancellare il silenzio iniziale

Vi è stata poi una massiccia campagna mediatico-reputazionale messa in atto dalla Cina in Italia. Attenzione, non si vogliono sminuire gli aiuti ricevuti, di fondamentale importanza, ma porre l’attenzione su una vicenda legata a dei post su Twitter.

Quasi la metà dei post pubblicati tra l’11 e il 23 marzo con l’hashtag #forzaCinaeItalia è opera di bot. Il flusso è stato prodotto dei cosiddetti account automatizzati e anche oltre un terzo di quelli con l’hashtag #grazieCina. Secondo un’analisi di Social Data Intelligence realizzata per Formiche dal Lab R&D di Alkemy SpA, in collaborazione con Deweave, Luiss Data Lab e Catchy, il 46,3% dei post su Twitter pubblicati tra l’11 e il 23 marzo con l’hashtag #forzaCinaeItalia, quasi la metà, è stata generata da bot, con il preciso scopo di fare da cassa di risonanza. Lo stesso vale per un altro popolare hashtag, #grazieCina, che nello stesso arco di tempo ha dato ampia eco all’operazione diplomatica cinese: più di un terzo dei tweet che lo contenevano, il 37,1%, era prodotto da bot. Questa l’analisi di Formiche.

Privacy

Contro il virus i paesi asiatici si armano inoltre della sorveglianza digitale, tramite i Big Data. “Ma salvano le vite umane”, sarebbe l’apologia più diffusa a questa pratica. Della protezione di questi Big Data però non ne parla quasi nessuno, anzi, nella stessa Cina si assiste all’introduzione di un sistema di punteggio sociale che consente al governo di valutare il cittadino secondo parametri ben precisi. Ogni click. Ogni acquisto. Ogni auto che passa con il rosso. Ogni cittadino che interagisce con un oppositore del governo. Tutto è tracciato. Più alto è il punteggio, maggiori sono i vantaggi. Scesi sotto una certa quota si rischia di perdere il lavoro. Privacy? Non si sa nemmeno quale sia il significato di questa parola. Tale sistema si è rivelato ottimo per il contenimento del contagio.

In Europa ovviamente una lotta del genere al virus è impensabile, e si dividono i fronti pro o contro il tracciamento anche da noi, sia questo via bluetooth o geolocalizzante. Resta alto il dibattito in merito al diritto alla privacy e alla riservatezza. In Italia ancora si cercano esperti e soluzioni in materia.

UNGHERIA

Ungheria, caso assai preoccupante, in quanto sta avvenendo “in casa”.

Con 137 voti favorevoli e 53 contrari, il Parlamento ungherese ha affidato al presidente Viktor Orbàn poteri straordinari. La decisione è stata presa per combattere l’emergenza Covid-19. La legge prevede la sospensione di tutti i trattati europei e il controllo sulla circolazione delle informazioni. Chiunque venga accusato dall’esecutivo di diffondere fake news sarà punibile con il carcere fino a 5 anni. I poteri di Orbàn potranno essere rinnovati senza limiti. Governerà per decreti e sarà lui a decidere quando lo stato di emergenza potrà dirsi concluso. 

L’Ungheria fa parte dell’Unione Europea dal 2004, ma è da tempo che pare essere diventato un paese a guida semi-autoritaria.

Quella di Orbàn è a tutti gli effetti una democrazia illiberale, temine che sta ad indicare un governo eletto regolarmente, ma dal quale i cittadini sono esclusi per quanto riguarda tutto ciò che ha a che fare con potere e libertà civili. La preoccupazione principale per quanto riguarda la mossa di Orbàn è legata al fatto che i pieni poteri non siano stati vincolati da un limite di tempo, sottraendo al Parlamento ogni strumento di controllo. Ciò significa che Orbàn potrà governare per decreti e abrogare le leggi votate dall’assemblea fino a quando non lo riterrà più necessario.

Per quanto riguarda la condanna a chi diffonde fake news fino a 5 anni di carcere, questa azione apre seriamente il pericolo vengano annoverate anche le critiche alla gestione dell’allarme sanitario e al disastroso stato della sanità pubblica ed altre qual si voglia decisioni del potere. Una stretta limitazione dunque a quella che è l’opinione pubblica. Dal punto di vista della libertà di espressione stiamo parlando di un paese all’interno del quale 2/3 delle testate sono state state acquistate dalla compagnia “Mediaworks”, al capo della quale siede uno dei più fedeli collaboratori di Orbàn. E una volta acquistate, queste vengono chiuse. La procedura è stata raccontata da un giornalista intervistato per Piazza Pulita.

La risposta italiana

La risposta italiana è stata varia, ed ha visto una legittimazione da parte di Giorgia Meloni e Matteo SalviniMatteo Renzi chiede invece l’espulsione dall’Ue.

La risposta europea

«La Commissione europea sta valutando la legge ungherese sullo stato di emergenza e le sanzioni penali per le informazioni false». Così scrive su Twitter il commissario europeo per la Giustizia e lo Stato di diritto, Didier Reynders. «Uno stato di emergenza illimitato e incondizionato non può garantire il rispetto delle regole e dei valori della democrazia», così ha dichiarato l’Alto commissario dell’Onu per i diritti umani Michelle Bachelet. Ma Orbàn sa di poter contare sulla Polonia per impedire l’unanimità necessaria a far scattare le sanzioni contro il suo paese.

«È della massima importanza che le misure di emergenza», adottate dai governi Ue per il coronavirus «non vadano a scapito dei nostri valori fondamentali. La democrazia non può funzionare senza media liberi. Rispetto della libertà di espressione e certezza del diritto sono essenziali». Tale è stato il commento di Ursula Von Der Leyen dopo il caso Ungheria.

Potrebbe essere un ottimo modo per combattere l’emergenza sanitaria, dicono alcuni. Stranamente però il primo decreto emanato da Orbàn vieta ai trasgender di cambiare sesso. A prescindere dall’opinione di ciascuno in merito al tema specifico, era davvero un decreto indispensabile per combattere il virus?

Nel frattempo Orbàn si erge a difensore del popolo contro il “virus straniero”, dialettica che ben si concilia con la propaganda anti immigratoria, e fortemente discriminante nei confronti della comunità rom, che lo ha portato al potere. Nonstante tutte le considerazioni fatte, la situazione sanitaria è pietosa: i presidi sanitari sono precari, negli ospedali mancano tute, guanti, mascherine protettive e ci sono solo 2.560 ventilatori in tutto il paese.

NECESSITÀ DI VIGILANZA

Quella che stiamo vivendo è una situazione di difficoltà, che richiede però una maggiore vigilanza e responsabilità, affinchè alcuni non possano trarre vantaggio, a discapito dei più deboli, da questo momento di criticità. Resta alto il rischio che la mascherina possa essere utilizzata non solo come strumento di protezione dal contagio, ma anche come scusante per coprire le bocche dei contestatori e dissidenti in numerosi governi a livello mondiale. Ad essere a rischio dunque non è solo la salute dell’uomo, ma anche la garanzia dei suoi diritti fondamentali.

 

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