24 Mar 2021

Serve una nuova “finanza climatica”: le scelte passano dalle conferenze per il clima

I finanziamenti sono una parte fondamentale nelle strategie per la lotta al cambiamento climatico. Ne parliamo con Danielle Falzon della Brown University

Illustrazione: Gianluigi Marsibilio

Il 2020 doveva essere l’anno della COP26 (ventiseiesima conferenza per il cambiamento climatico organizzata dalle Nazioni Unite), tutto però è stato rimandato a novembre del 2021.

L’anno in corso, con le sue sfide e le sue battute d’arresto globali, ha però presentato una serie di opportunità connesse alla creazione di politiche di salvataggio o investimento dovute alla crisi pandemica. Uno studio realizzato dall’Oxford Economic Recovery Project e dall’UN Environment Programme (UNEP) ha calcolato l’ammontare dei piani di recovery delle prime 50 economie del mondo, trovando che solo il 18% della totalità dei finanziamenti avrà una ricaduta in economia verde.

Il ruolo della finanza climatica

Di investimenti e fondi per la finanza climatica si parla da anni, a regolare il tutto c’è stato il passaggio della COP15 di Copenaghen del 2009, che ha istituito un fondo per aiutare i Paesi in via di sviluppo ad una transizione.

Il passaggio 2009-2010 -che si è giocato tra la capitale danese e la città messicana di Cancùn- sede della COP16, aveva definitivamente stabilito un piano di finanziamenti immediati da 30 miliardi di dollari e l’obiettivo di 100 miliardi mobilitati entro il 2020. Successivamente l’Accordo di Parigi, raggiunto nella cornice della COP 21, è stato un passaggio importante che ha riconfermato i principi sulla finanza climatica. Oggi la prospettiva è di integrare e aggiornare i piani durante la prossima COP26.

Un passaggio chiave nella discussione sulle prospettive del nuovo accordo climatico sarà rappresentato dal report, che uscirà prima della COP26 e che testimonierà il grado d’impegno dei vari Paesi nel posizionare nuovi obiettivi nazionali. Ad oggi è uscita una prima versione sintetica del rapporto pubblicato dall’UNFCCC (United Nations Framework Convention on Climate Change), che mostra quanto gli impegni dei singoli paesi, chiamati Nationally determined contributions (NDCs), siano ancora profondamente inadeguati alla situazione e agli obiettivi stessi dell’Accordo di Parigi.

Molti paesi, non tutti, hanno comunque rinvigorito il loro quadro di obiettivi da presentare e discutere per la COP26 e tutto questo processo sarà utile a favorire un accordo più funzionale a quelli che sono gli scenari dettati dalla scienza in questi ultimi anni.

La strada da battere non è segnata solo dagli obiettivi presentati dai Paesi e dai conseguenti colloqui diplomatici, che per la verità in questi mesi procedono a rilento a causa di meeting di preparazione tenuti a distanza. Ad essere centrale, nel processo di integrazione dello storico Accordo di Parigi del 2015, è la ricerca e la letteratura scientifica che in questi anni si è concentrata sul rileggere criticamente gli accordi sul clima di questi decenni, offrendo delle prospettive migliori per capire dove sta andando e come proseguire la lotta al cambiamento climatico.

 

Il fondo di investimento per il clima 

In un’analisi uscita su Nature Climate Change viene messo sotto la lente d’ingrandimento il processo di verifica e controllo del fondo d’investimento per il clima, destinato ai Paesi in via di sviluppo, che fu ufficialmente vagliato nel corso del vertice di Copenaghen del 2009.

Dei meccanismi di finanziamento ci ha parlato la ricercatrice della Brown University e co-autrice dello studio, Danielle Falzon: «Nel 2009 c’era ancora la prospettiva che il cambiamento climatico sarebbe avvenuto in futuro, ora sappiamo che il cambiamento climatico è realtà nel presente. Penso che il rapporto dell’Intergovernmental Panel on Climate Change (IPCC) sui 1,5 gradi Celsius uscito nel 2018 abbia reso ancor più evidente l’importanza e l’urgenza di un’azione immediata sui cambiamenti climatici».

Nei meeting della COP15 si sviluppò concretamente l’obiettivo della mobilitazione dei 100 miliardi di dollari in finanziamenti per il clima. La cifra doveva essere raggiunta entro il 2020, tuttavia le cifre stimate, secondo i ricercatori che hanno portato avanti un’analisi comparata di più fonti, sono ancora lontane dall’effettivo obiettivo.

Una problematica è connessa a ciò che effettivamente viene calcolato come effettivo “finanziamento per il clima” da parte dei Paesi. Secondo il rapporto OXFAM ’17-’18  solo tra i 19 e i 22,5 miliardi di dollari sono stati spesi in investimenti. Cifre diverse, ma comunque inferiori ai 100 miliardi sono riportate dai rapporti dell’OECD.

C’è ancora una mancanza di chiarezza in ciò che può essere indicato come finanziamento del clima, un esempio chiaro è emerso grazie alla precisazione della Falzon: «Molti Paesi e istituzioni che contribuiscono ai finanziamenti per il clima contano anche i prestiti, mentre i paesi beneficiari hanno espresso la loro posizione affermando che i prestiti non dovrebbero contare come finanziamenti per il clima. Definire chiaramente il tema dei finanziamenti per il clima e delineare modalità di contabilizzazione specifiche e uniformi migliorerebbe il sistema».

Nell’analisi uscita su “Nature”, i ricercatori evidenziano tre punti critici nella gestione dei fondi: i Paesi sviluppati includono nel computo totale del valore dei finanziamenti tutti gli strumenti finanziari utilizzati; i metodi per calcolare i flussi di finanziamento connessi al clima sono strutturati su sistemi che utilizzano metodi diversi di classificazione e in ultima istanza c’è una mancata chiarezza nel capire se i fondi utilizzati per questi investimenti siano effettivamente stanziati ad hoc per il clima o siano semplicemente ricollocati da altri settori.

 

Come cambiano i finanziamenti per il clima 

Per superare questa situazione è necessario, secondo la Falzon, aiutare direttamente le organizzazioni nazionali ad accedere ai fondi, questo infatti «può assicurare che i finanziamenti siano spesi per le priorità del Paese». Nell’analisi di un Paese in via di sviluppo, quando si affrontano queste tematiche, viene sempre evidenziata una mancanza di infrastrutture adatte, in questo passaggio il discorso della ricercatrice della Brown University è stato estremamente chiaro: «Molti fornitori di finanziamenti per il clima, come i fondi multilaterali o le agenzie di donatori, sostengono che i Paesi in via di sviluppo spesso mancano delle infrastrutture istituzionali necessarie per un’efficace governance dei finanziamenti. Per esempio, i finanziatori vogliono che questi Paesi abbiano infrastrutture specifiche per la trasparenza e la rendicontazione». Il ragionamento però potrebbe effettivamente nascondere, come fa presente la Falzon: «una mancanza di fiducia nei Paesi in via di sviluppo da parte dei finanziatori».

Un aspetto interessante messo in luce è legato alla possibilità che: «I Paesi in via di sviluppo ricevano fondi anche per assumere personale, per rivedere le proposte di progetto e per decidere come e dove dare priorità ai finanziamenti per il clima. Penso –spiega la ricercatrice– che sarebbe ingiusto dire che i Paesi in via di sviluppo debbano costruire una qualsiasi forma specifica di infrastruttura universalizzabile per ricevere i finanziamenti per il clima».

Gli spunti della comunità scientifica possono essere utili per migliorare il meccanismo riaffermato con l’Accordo di Parigi, in particolare dall’articolo nove, che riconfermava l’impegno complessivo da parte delle nazioni sul fondo per il clima.

Nel mezzo dei colloqui preparatori della COP26, e con gli Stati Uniti rientrati nell’Accordo di Parigi in modo effettivo dal 19 febbraio, si può pensare che questo sia un momento buono per rendere più facilmente applicabili e controllabili le politiche e gli strumenti di quella che la convenzione UNFCCC definisce come Climate Finance, ovvero la:

«local, national, or transnational financing—drawn from public, private, and alternative sources of financing—that seeks to support mitigation and adaptation actions that will address climate change»

Nel 2012, qualche mese dopo il passaggio della COP17 che si tenne a Durban e che portò all’istituzione fattuale del fondo da 100 miliardi, Il World Resources Institute pubblicò un rapporto che raccontava chiaramente i benefici di un sistema trasparente di reporting, tracciamento e verifica dei risultati ottenuti dai singoli paesi. Gli stessi principi di cui ancora oggi stiamo parlando e che sarebbe importante definire formalmente nella COP26.

La situazione negli USA dopo il rientro nell’Accordo di Parigi

La pandemia oggi può essere un effettivo volano per la finanza climatica: gli indicatori sono in fase di aggiornamento e solo tra qualche anno si potrà giudicare con scientificità le manovre in corso, tuttavia delle analisi preliminari sono già disponibili, ad esempio, uno studio del Rhodium Group ha quantificato gli sforzi nel settore green e nella climate finance contenuti nelle politiche di supporto economico di EU, Usa, Cina e India durante la crisi pandemica di questo ultimo anno. Per ora, ad esempio, i neo rientrati Stati Uniti sono ancora distanti dalle percentuali di fondi stanziati dall’EU, che ha destinato il 15% degli stimoli allo sviluppo del verde.

Le stime in queste settimane sicuramente saranno aggiornate e anzi ci sarà da analizzare gli sforzi della nuova amministrazione Biden. In questa direzione arriva anche l’analisi del Wall Street Journal, che si è soffermato a raccontare le complessità che ruotano dietro l’elaborazione di una nuova strategia che integri cambiamento climatico e sviluppo economico.

Nella nostra intervista con Danielle Falzon, anche la ricercatrice ha riportato il suo punto di vista dagli USA: «Nel mio Paese siamo più pronti ad agire che mai (grazie anche al nostro nuovo Presidente), e la maggior parte degli americani crede che l’azione sul clima sia necessaria. Si spera che questo incoraggi i Paesi a contribuire con più finanziamenti per il clima. I paesi più ricchi devono ancora essere convinti sul fatto che dovrebbero fornire grandi somme di denaro ai pOaesi in via di sviluppo».

Una giusta combinazione di ambizione e realismo è quella che dovrebbe guidare un sistema di finanziamento e verifica del raggiungimento degli obiettivi economici connessi alla lotta al cambiamento climatico.

Per applicare tutto questo si può partire da strategie bottom-up: «La locally-led adaptation –ha spiegato Danielle Falzon– è una strategia che prevede che la popolazione locale decida le priorità di intervento e co-costruisca il progetto con i professionisti. Garantire che le persone vulnerabili al cambiamento climatico abbiano il potere di determinare il proprio futuro è fondamentale per sviluppare la giustizia climatica».

La COP26 è alle porte, l’occasione può essere sfruttata al meglio.

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