L’emergenza sanitaria e il lockdown, imposto dal Governo per evitare la diffusione dell’epidemia da Covid-19 e l’aumento dei contagi, hanno reso necessaria l’introduzione di una “nuova” modalità lavorativa, che ha consentito durante il periodo più problematico, a moltissimi lavoratori di svolgere le proprie mansioni senza dover lasciare la propria abitazione: lo smart working.
Con questo termine si fa riferimento al cosiddetto “lavoro agile”, cioè ad una tipologia di attività lavorativa svolta mediante l’uso di strumenti tecnologici e contraddistinta dall’assenza dei vincoli spaziali, temporali e da un’organizzazione per fasi, cicli ed obiettivi, stabilita mediante un accordo tra il datore di lavoro e il dipendente. Una modalità, che aiuta quest’ultimo a conciliare i propri impegni riuscendo così anche ad aumentare la propria produttività lavorativa.
Proprio a tal proposito numerose ricerche, tra cui quella realizzata dall’Osservatorio del Lavoro Agile del Politecnico di Milano, hanno dimostrato che questa modalità aumenta in modo considerevole la produttività, addirittura del 15% per lavoratore. La definizione di smart working, contenuta nella Legge n.81/2017, dà soprattutto rilevanza alla volontarietà delle parti, che sottoscrivono un accordo individuale caratterizzato dall’utilizzo di strumentazioni digitali, che consentano di lavorare da remoto (come ad esempio computer, tablet e smartphone).
Ad ogni lavoratore dovrebbe essere garantita, ovviamente, anche in questo specifico caso, la parità di trattamento, sia sotto il profilo economico che in quello normativo. E, inoltre, dovrebbe essere prevista la tutela in caso di infortunio e di malattia. In più, è necessario precisare che questa “nuova” modalità consente ai lavoratori in condizioni di fragilità (ad esempio immunodepressione, patologie oncologiche ecc.) di esporsi a minori rischi per la salute. Questo discorso riguarda anche i lavoratori affetti da disabilità con attestazione di gravità ai sensi dell’articolo 3, comma 3, della legge 5 febbraio 1992, n. 104.
Ci sono anche voci critiche
Non mancano alcuni aspetti problematici dello smart working: un aumento della sedentarietà; l’isolamento domestico e quindi l’assenza di relazioni face-to face; problemi posturali, oculari; il mancato possesso di sufficienti dispositivi digitali e connessioni adeguate; e infine l’assenza di un giusto equilibrio tra vita privata e lavoro che determina la mancanza di privacy.
Durante la fase più critica dell’emergenza sanitaria e la conseguente chiusura di scuole ed università, si è resa necessaria l’introduzione della didattica a distanza. A differenza di quanto riscontrato in ambito lavorativo, nel mondo accademico e scolastico ci sono state e ci sono tuttora numerose difficoltà riscontrate sia dai docenti che dagli studenti. I problemi principali hanno riguardato l’assenza di idonee apparecchiature all’interno delle abitazioni e l’impossibilità per le famiglie più bisognose di acquistarle, nonché la tardiva attivazione dei servizi telematici da parte di istituzioni scolastiche ed universitarie.
La sperimentazione del “lavoro agile”, obbligata dal diffondersi di questo virus, ha permesso e permette ad aziende, lavoratori e studenti di scoprire e sfruttare benefici e vantaggi del lavoro e studio a distanza che sembrano essere maggiori degli aspetti negativi. Per questo in molti sperano che questo modo di lavorare possa divenire con il tempo un incentivo a incrementare maggiormente l’integrazione del digitale nel mondo lavorativo e in quello accademico.
Il dibattito sullo smart working è aperto
L’annuncio dato da Renato Brunetta, ministro della Pubblica Amministrazione, della necessità di tornare a lavorare in ufficio a partire dal 15 ottobre 2021, ha sollevato non poche polemiche. Da una parte c’è chi pensa che un ritorno al lavoro in presenza sia dannoso anche per la salute, in quanto tutto questo comporta un ritorno alla vita frenetica di ogni giorno: e c’è, invece, anche chi crede che applicare le conoscenze soprattutto informatiche apprese durante la pandemia grazie allo smart working può essere fruttuoso. Indicative in questo dibattito, le parole pronunciate dal ministro Brunetta: «bisogna trasformare le modalità di lavoro agile in una “eccezione” stabilita dai dirigenti in base alle singole situazioni e alle esigenze delle singole amministrazioni», cui fa eco Andrea Orlando, ministro del lavoro e delle politiche sociali: «è necessario introdurre sostegni alle imprese che con l’inizio del nuovo anno continueranno ad utilizzare le modalità del lavoro agile in quanto voglio farmi promotore dello smart working».
Per alcuni esperti del mondo del lavoro, questa modalità rappresenta una vera e propria svolta, come sottolinea Marco Bentivogli, ex sindacalista, coordinatore e co-fondatore di Base Italia, e autore di “Indipendenti. Guida allo smart working” (Rubbettino, 2020).
Pro e contro: alcune voci
Per Bentivogli, «negando alle Pa la possibilità di proporre lo smart working, non solo si frustrano i lavoratori attuali, ma ci si priva della possibilità di competere per attrarre i migliori talenti, e questo proprio nel momento in cui la Pa deve affrontare un gigantesco ricambio generazionale. Non è questo ciò di cui il Paese ha bisogno, non è il momento di ingaggiare improbabili battaglie di retroguardia» (con M. Corso, Repubblica 5 settembre 2021).
Per altri esperti in materia, invece, il “lavoro agile” è un limite, che alcuni definiscono – letteralmente – come “un fai da te”, deludente sia per la generalità delle disposizioni, sia per il fatto che non gli è stata data quell’attenzione che sembra meritare. Savino Balzano – sindacalista, saggista e autore per Laterza del libro “Contro lo smart working” – scrive: «Il lavoratore si deve far carico dell’onere della costruzione della postazione di lavoro: il punto non è solo economico, ma riguarda soprattutto una questione di salute e sicurezza. C’è poi il problema della disconnessione: il lavoro aumenta, ti insegue ovunque, persino nel bagno. La retribuzione resta però la stessa, quindi quella su base oraria scende: lo smart working è un lavoro più povero. Lo straordinario non si paga».
Ugualmente critico è Rosario De Luca, presidente della Fondazione Studi dei Consulenti del Lavoro: «è necessario introdurre quanto prima una regolamentazione più chiara e trasparente di questa forma di flessibilità per evitare che uno strumento dalle grandi potenzialità venga confuso con il tele-lavoro». «Sono necessari», aggiunge, «un cambiamento di mentalità e un’organizzazione produttiva fortemente innovativa per massimizzarne gli effetti».
Inoltre, una cosa importante da precisare è che il lavoro agile, a differenza del telelavoro, non introduce una forma contrattuale specifica, ma semplicemente una modalità di lavorare e dove è necessario generare solamente un accordo individuale tra le parti coinvolte nel rapporto lavorativo. Ecco il motivo per cui alcuni esperti del lavoro continuano a chiedere una regolamentazione più precisa di smart working (ad esempio il diritto al buono pasto, il diritto di ricevere la strumentazione informatica, la libertà della scelta del luogo nel quale svolgere il lavoro ed infine il diritto alla disconnessione …), anche con l’obiettivo di riuscire ad avere una normativa completa, esaustiva e una strumentazione adeguata a svolgere il lavoro.
In conclusione, solo in futuro, ormai tanto vicino che si può definire presente, si potrà capire se le aziende riterranno opportuno o no, integrare questa “nuova” modalità lavorativa insieme a quella tradizionale.