Maura Delpero, regista altoatesina premiata alla 72a edizione del festival di Locarno con il film Maternal, esordisce alla Biennale di Venezia con un’opera dal tema simile a quella presentata al concorso elvetico. La maternità viene raccontata all’interno di un allargato contesto familiare di un piccolo paese del Trentino – Vermiglio appunto – a cavallo della fine della Seconda Guerra Mondiale.
In una rappresentazione in cui la guerra resta fuoricampo, la concentrazione viene rivolta agli effetti economico-sociali provocati dal contesto bellico all’interno di una piccola comunità autotrofa. Il motore della trama risiede nel matrimonio tra Lucia, primogenita di una larga famiglia, e Pietro, un disertore di guerra siciliano scappato nel paese trentino. Si scoprirà che il ragazzo era già sposato con una giovane siciliana che, non accettando la condizione di bigamia, arriverà a ucciderlo non appena si ripresenterà in Sicilia al termine della guerra. Questa grave perdita, oltre a farla rimanere vedova, costringe Lucia a ricostruirsi la vita per assicurare al figlio appena nato un futuro dignitoso e alternativo a quello scontato del resto dei bambini che crescevano nel paesino.
Quella di Lucia è una storia di grande dolore e di rinascita, al fine di appropriarsi di una vita che non è mai stata sotto il suo controllo, quanto decisa dalle direttive del padre di famiglia, un insegnante eccentrico che vede nei figli solo un insieme di teste da usare per la manodopera. La mancanza di cultura è facilmente percepibile dall’alto tasso di analfabetismo presente nelle campagne italiane del dopoguerra – accentuata dalla scelta della regista di far parlare i protagonisti esclusivamente nel dialetto locale – che fa da contrappeso a una volontà di crescita personale da parte dei ragazzi, desiderosi di imparare, ma impossibilitati, viste le difficoltà economiche e sociali presenti nel 1944. La voglia di sperimentare viene spesso repressa dal capo famiglia che, imponendo alle figlie dei ruoli predefiniti, le fa crescere in uno stato di rassegnazione generale.
Facendo leva sulle sue radici, la regista vuole mostrare il clima di misoginia e intolleranza presente nei luoghi isolati, in cui gli uomini erano ridotti ai lavori manuali e le donne segregate in casa e costrette ad avere il maggior numero di figli possibile, in una tradizionalità che fatica a mutare nonostante le tragedie. L’anticonformismo dei contesti familiari viene sapientemente accentuato da una staticità della macchina da presa che, oltre a evidenziare una lentezza d’azione dei protagonisti e della trama, si sofferma spesso nella ripresa dei paesaggi naturali, con toni che richiamano il lirismo di alcune antiche opere del maestro Ermanno Olmi. Le quattro stagioni di Vivaldi – utilizzata come colonna sonora – rappresenta lo scorrere del tempo di una natura che, nonostante le sue mutazioni, continua a rigenerarsi e a tornare al suo stato precedente. La forte povertà, inoltre, distorce il peso degli eventi, con la caduta di tanti uomini in guerra che viene assimilata con una fredda empatia dai padri di famiglia: “Un bambino in più da mantenere con un uomo in meno che lavora”.