Il delicato tema dell’inizio della privatizzazione dei terreni agricoli viene presentato in concorso al Festival del Cinema di Venezia da Athina Rachel Tsangari, attraverso una forma atipica di Western che mira a ricreare delle analogie con i moderni meccanismi di appropriazione del mondo esterno. Con l’adattamento dell’omonimo romanzo di Jim Crace, la regista ci narra una storia universale, senza luogo né tempo – anche se ambientato nell’Inghilterra della fine del ‘700 – della perdita del terra a favore dei più economicamente potenti.
La trama vede coinvolta la comunità di un piccolo villaggio che da sempre adotta l’agricoltura come unica forma di sopravvivenza e appartenenza alla terra. Un gruppo di persone mentalmente chiuse, gestite dal signorotto locale, la cui tranquillità viene minata dall’arrivo di alcuni stranieri messi alla gogna perché ritenuti responsabili del fuoco che ha distrutto il raccolto. L’equilibrio spezzato dai forestieri, porta la comunità a dare il peggio di se stessa, attraverso crescenti egoismi e forme di omertà che inesorabilmente porteranno alla diaspora già pianificata da uno dei potenti latifondisti producendo la frantumazione di quel piccolo e chiuso mondo rurale (la scena del “battesimo” dei più giovani con la testa sbattuta su un sasso che determina il limite del latifondo è significativa). Tecnicamente, la regista riesce a curare l’elemento estetico sia nei personaggi che nelle ambientazioni. L’incendio del villaggio rappresenterà il cambiamento.
La regista ritorna su una delle massime della filosofia più pessimista, Homo Homini Lupus, che considera ogni uomo lupo per il suo simile che deve salvaguardare la sua individuale sopravvivenza. Anche la visione della regista è pessimista: Harvest ci mostra che solo la comunità può ottenere effetti, ma l’epoca non era ancora tra le più adeguate in quanto la grave miseria rendeva l’essere umano imbestialito dal lavoro e dall’estremo bisogno.