«Il clima ha bisogno di cittadini, non di spettatori». Così è intitolato il recente articolo di Ferdinando Cotugno, uscito su Rivista Studio. Le immagini che in questi giorni arrivano da Valencia, o da altri luoghi colpiti da eventi climatici estremi, rischiano di renderci semplici osservatori, consumatori mediatici di un cambiamento climatico inesorabile e apocalitticamente insormontabile.
Il modo in cui ci approcciamo alle notizie, alle immagini e ai suoni che testimoniano l’impatto dell’uomo sul pianeta, sul clima e la biodiversità ci riguarda e interroga in maniera diretta: non si tratta di capire che posto occupa il clima nell’agenda setting dei media, tema che è oggetto di studi da anni, ma qualcosa di più personale e vicino alle nostre abitudini, alla quotidianità.
Il podcast come possibilità per la comunicazione della scienza e del clima
Il podcast può offrire domande e prospettive per il racconto del cambiamento climatico, della conservazione e della biodiversità: un terreno mediatico di convergenza e conversione da spettatore ad attivista.
Da anni il podcast è un media che fa parte dell’ecosistema informativo: caratteristiche come la convergenza tra piattaforme, l’accessibilità a strumenti di creazione e la crescita nel bacino di ascoltatori hanno reso il podcasting una possibilità di comunicazione per la scienza anche per le università, gli enti di ricerca e le organizzazioni senza scopo di lucro (NGO).
Un esempio è quello di How To Save It, prodotto dalla Whitley Fund for Nature. Il podcast è presentato da Kate Humble e dal fondatore della WFN Edward Whitley e mette al centro le storie di scienziati, attivisti e personalità coinvolte nella conservazione e nella salvaguardia di habitat. Per raccontare come è nato e fare un paio di considerazioni sullo science journalism e su podcasting e cambiamento climatico, ho intervistato Carol Roussel, che cura la comunicazione e le relazioni con i media per l’organizzazione. Carol Roussel ha lavorato come giornalista per il The Daily Telegraph, a Tokyo per Bloomberg News e a Parigi per BBC Radio 4. I suoi lavori sono stati pubblicati anche sul The Economist e sul New York Times.
«How to Save It è la prima incursione di WFN nel settore audio, dove i podcast sono sempre più considerati una fonte di informazione affidabile, che attrae un pubblico altamente coinvolto – spiega Roussel – il nostro podcast è un’integrazione naturale ai filmati che Sir David Attenborough, il nostro ambassador, racconta per la nostra comunità di ambientalisti. Mentre i filmati sono brevi, in genere di 3-4 minuti (un esempio è quello della dottoressa Purnima Barman), il podcast, della durata di circa 14 minuti, offre l’opportunità di ascoltare gli ambientalisti e di informare gli ascoltatori sul loro lavoro».
Dal racconto dell’emergenza alla narrazione partecipativa delle comunità
Emerge la possibilità di creare, attraverso il podcast, una narrazione crossmediale e integrale per un’organizzazione che si occupa di ambiente e clima. A questa considerazione si aggiunge l’importanza di rendere protagoniste le persone che abitano le comunità: «anche se il loro lavoro deve essere guidato dalla scienza, non devono essere necessariamente scienziati: Leroy Ignacio della Guyana (episodio 6) è un esempio perfetto del risultato che può raggiungere una comunità indigena nella salvaguardia. Leroy non ha una formazione scientifica, ma ha accompagnato gli scienziati dello Smithsonian che hanno identificato per la prima volta la piccola popolazione di uccelli del lucherino rosso in Guyana. Questo lo ha ispirato a creare la prima ONG a guida indigena che si occupa di conservazione nel paese. La sua organizzazione al momento si sta espandendo, in quanto lo sviluppo economico incrementa le minacce all’habitat della specie. È un esempio illuminante di come le popolazioni indigene si approprino della loro proprietà. Il futuro della biodiversità è nelle loro mani».
Mettere al centro luoghi e popolazioni, anche provenienti dal sud del mondo, apre un nuovo scenario. C’è infatti l’opportunità di uscire dalla narrazione emergenziale del clima e dell’ambiente: come evidenziato da un recente studio dell’Osservatorio di Pavia, i media italiani affrontano spesso il tema del cambiamento climatico solo in momenti di emergenza. La frammentarietà, secondo Roussel, limita una comprensione ampia della crisi. Il podcast può offrire d’altro canto uno spazio intimo e continuo per esplorare le storie di chi lavora per risolvere questi problemi: «È imperativo che le storie siano raccontate dalle persone locali o indigene – sottolinea Roussel – la biodiversità, come il cambiamento climatico, è una questione che necessita di una prospettiva locale per essere capita e sentita».
Tornando all’immagine evocata all’inizio di questa riflessione, il renderci cittadini partecipi e non semplicemente spettatori significa anche ragionare sul fatto che spesso l’informazione climatica e ambientale è vittima di una enfatizzazione di quelle che sono le più immediate e paralizzanti conseguenze del cambiamento climatico.
Comunicare per superare il «senso di impotenza»
Questo approccio rischia di alimentare una distanza psicologica rispetto al problema. I podcast, in quanto canale partecipativo, possono aiutare a superare delle barriere cognitive, fornendo una narrazione empatica e in prima persona, che rende il problema più vicino all’ascoltatore. Come osserva Roussel, è cruciale restituire al pubblico la sensazione che anche le sfide globali – come la crisi climatica – possano essere affrontate localmente, attraverso l’azione collettiva: «quello che cerchiamo di comunicare è la sensazione che l’azione possa sconfiggere il senso di impotenza che le persone provano. Gli ambientalisti devono affrontare una miriade di sfide: siccità, incendi, disinformazione sulle specie che cercano di proteggere, governi talvolta ostili e altro ancora, ma si rifiutano di perdere la speranza». Edward Whitley, fondatore del WFN, ne ha parlato in un’intervista con Sir David Attenborough.
Il podcast diviene, quindi, generatore di comunità che si rifiutano di perdere la speranza, anche nelle azioni di comunicazione che spesso sui media possono sembrare aliene e distanti da noi: «la difficoltà principale dei media tradizionali è che non ci sono molti giornalisti che si occupano di biodiversità».
Fare un podcast non è una panacea contro i mali, infatti nonostante i vantaggi, il podcasting non è immune dalle sfide. In un ambiente digitale in cui i contenuti sono abbondanti e la competizione è elevata, i podcast dedicati alla comunicazione scientifica, climatica e ambientale devono affrontare il problema della visibilità. Mentre grandi piattaforme come Spotify e YouTube dominano il settore, i podcast indipendenti e quelli meno noti devono fare i conti con risorse limitate e competere con show già consolidati.
Il podcast come un intimate bridging medium potrebbe portare, a lungo termine, a interagire con esperti, comprendere meglio le problematiche ambientali e soprattutto tradurre la conoscenza in azioni pratiche? È una domanda che al momento non ha una risposta netta, ma un ascoltatore immerso in una comunità sonora che condivide valori e prospettive, che cerca contatto con chi lavora nelle scienze del clima o nell’ambito della conservazione, forse ha fatto un passo in più per passare ad essere da spettatore a cittadino.
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È possibile leggere qui l’intervista integrale con Carol Roussel con consigli di ascolto e indicazioni di puntate che possono essere un ottimo spunto per contestualizzare in maniera più approfondita i temi riportati nell’articolo.