Congo, dove il giornalismo è una missione

Nella Repubblica Democratica del Congo vengono perseguitati e uccisi i giornalisti che raccontano gli abusi, l’insicurezza, le violazioni dei diritti umani. Raccontare la verità è un atto di resistenza contro l’ingiustizia

Il Cardinale Malula Albert diceva: «Mieux vaut être crucifié que de crucifié la vérité», cioè, meglio essere crocifissi che crocifiggere la verità.

Il giornalismo gioca un ruolo fondamentale nella democrazia. Di solito viene considerato come il quarto potere, serve infatti come pilastro essenziale nella ricerca della trasparenza e della giustizia. Tuttavia, in alcune parti del mondo, come nella Repubblica Democratica del Congo (RDC), praticare questa professione a volte può portare a diverse conseguenze e persino alla morte. Da trenta anni in questo Paese c’è una guerra che ha causato più di 12 milioni di vittime, e la ricerca della verità è diventata pericolosa.

Come può un giornalista rimanere fedele all’etica della sua professione e preservare la sua vita e la libertà? Questa domanda contiene in sé una forza enorme, in un Paese dove la libertà d’espressione è limitata. I giornalisti congolesi che provano a denunciare i temi riguardanti l’insicurezza, la corruzione, gli abusi di potere ed anche le violazioni dei diritti umani, sono di solito perseguitati, ed alcuni vengono arrestati, minacciati, intimiditi e a volte assassinati.

Serge, Didace e gli altri

La storia recente della Repubblica Democratica del Congo è caratterizzata da tanti esempi tragici. Nel 2007, Serge Maheshe, giornalista della Radio Okapi, è stato assassinato a Bukavu, nell’Est del paese. Serge era un bravo giornalista che ha lottato contro le violenze e l’ingiustizia che regna in questa regione dell’Est, denunciando sempre nei suoi reportage questi temi sensibili molto diffusi nel paese.

Ad un solo anno dalla sua morte, nel 2008, anche il suo collega Didace Namujimbo è stato assassinato nella stessa città. Anche Didace lavorava a Radio Okapi. Tutti questi atti di violenza e di criminalità hanno il solo obiettivo di soffocare le voci di coloro che criticano ciò che è male. Per questo motivo ci sono stati tanti altri giornalisti martiri in questo paese. Nel 2016, Rémy Nsibu Matumo, un altro giornalista, è stato ucciso nella regione del Kasai. Alcune indagini hanno mostrato che Nsibu stava indagando sulla corruzione e la cattiva gestione, e così il suo coraggio e la sua determinazione l’hanno portato fino alla morte. Tanti altri cronisti sono stati uccisi a causa della loro fedeltà all’etica giornalistica e alla verità, come Sango Mamadou Ndala, Joel Musavuli, Jacques Matumo, ecc. Tutti assassinati perché volevano far trionfare la verità.

Questi giornalisti non sono forse dei martiri della verità? Hanno sacrificato la loro sicurezza, libertà e anche la loro propria vita per diffondere un valore essenziale: il diritto delle persone all’informazione.

Oltre agli omicidi, i giornalisti nella Repubblica Democratica del Congo subiscono intimidazioni, censure e pressioni. Tutte queste forme di violenza mirano a scoraggiare ogni tentativo di denuncia degli abusi che affliggono il paese. Nonostante i rischi, loro continuano a esercitare la loro professione con coraggio e ammirevole resilienza.

Un atto di resistenza contro l’ingiustizia

Ma perché corrono così tanti rischi? Perché hanno capito che il giornalismo è molto più di una professione, è piuttosto una missione, una vocazione. In un contesto in cui le ingiustizie sono davvero molte, si considerano come i custodi della verità e la voce di chi non ha voce. Quando i giornalisti mettono in luce le disfunzioni del sistema, questi bravi difensori della verità, ricordano che nessuno deve essere al di sopra della legge, cioè che i cittadini hanno il diritto di sapere cosa stia succedendo nel loro proprio Paese.

Esercitare il giornalismo in un paese dove la libertà di espressione è minacciata esige un coraggio veramente straordinario. Non si tratta solo di avere passione per l’informazione, serve anche di una forte determinazione nell’affrontare qualsiasi pericolo. Questi giornalisti sanno bene che il loro lavoro è pericoloso, ma perseverano perché credono a dei valori più alti come la giustizia, la trasparenza e soprattutto al valore della dignità umana.

Non si sottraggono davanti alle minacce, perché non trattare questi problemi significherebbe tradire la loro missione. Ogni denuncia, ogni indagine, ogni parola scritta o pronunciata diventa un atto di resistenza conto l’ingiustizia e l’oppressione. Il sacrificio di questi giornalisti interpella tutti e in modo particolare le nuove generazioni. Questo sacrificio ci ricorda che la libertà d’espressione non si conquista una volta per tutte, ma è una battaglia costante, quotidiana.

Un appello ai giovani futuri giornalisti

E tu, studente (studentessa) di giornalismo, che tipo di giornalista vuoi diventare in futuro? Sei pronto (pronta) a seguire le orme di questi eroi che hanno dato la vita per difendere la verità e proteggere l’etica giornalistica? Sei pronto (pronta) ad affrontare le sfide e i pericoli per diventare una voce di giustizia e trasparenza, una voce di chi non ha voce? A mio parere, essere giornalista significa essere più di un semplice reporter che racconta dei fatti, ma vuol dire essere protagonista del cambiamento, difensore della dignità umana e soprattutto testimone di realtà spesso nascoste. È ancora oggi una missione nobile, ma anche impegnativa, che richiede coraggio, passione e profonda fedeltà all’etica.

Allora, quale giornalista sceglierai di essere domani? Sarai anche tu una voce per chi non ha voce, anche quando ti costerà caro?

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