“A occhi aperti”: il modo della fotografia in 10 interviste

È l'ultimo libro del direttore de "La Repubblica". Una riflessione sul potere narrativo della fotografia e sulla sua capacità di cambiare la percezione della realtà

«Questo non è un libro sulla fotografia, ma sul giornalismo, sull’essenza del giornalismo: andare a vedere, capire e testimoniare». Così Mario Calabresi, direttore de “La Repubblica”, scrive nell’introduzione del suo libro “A occhi aperti” (ed. Contrasto), una raccolta di interviste a dieci grandi maestri del fotogiornalismo, che con le loro immagini hanno raccontato storie e realtà spesso troppo distanti da noi.

Attraverso l’occhio della loro fotocamera, Calabresi ci fa riflettere sul potere narrativo della fotografia e sulla sua capacità di cambiare la percezione della realtà. Così, questi grandi “operatori dell’informazione” ci parlano dei loro metodi di lavoro, delle loro emozioni, paure, vittorie personali e ci raccontano cosa hanno provato “un attimo prima e un attimo dopo il momento dello scatto”.

“A occhi aperti” è, perciò, un vero e proprio viaggio nelle aree più tormentate del nostro pianeta e negli avvenimenti che hanno segnato gli ultimi cinquant’anni di storia.

Perché, in fondo, la fotografia cosa altro è, se non il mezzo attraverso cui si trasmettono messaggi importanti e si sensibilizza su questioni sociali troppo spesso dimenticate?

 

  • Steve McCurry e i suoi numerosi viaggi per testimoniare la stagione del monsone.“Per farcela dovevo entrare in quell’acqua lurida […]. Per completare il mio progetto dovevo accettare tutti i rischi, anche quelli di ammalarmi e morire”.
  • Josef Koudelka e le immagini dell’invasione sovietica di Praga.“Sono passati quaranta anni e non ti puoi fidare della memoria, ma delle foto sì, ti puoi fidare”.
  • Don McCullin e le foto di distruzione e morte scattate a Cipro, in Vietnam e in Libano.“Mi succede spesso di vedere un cervo nella nebbia […]. È come una benedizione che mi aiuta a mandare via tutte le schifezze che affollano la mia mente”.
  • Elliott Erwitt e il suo lavoro sulle tensioni razziali in America.“Lo stesso tubo,la stessa acqua […]. Un erogatore è moderno,l’altro è vecchio e scrostato. Era tutto così terribilmente chiaro”.
  • Paul Fusco e il reportage sul Funeral Train del Presidente Kennedy.“Rimasi nella stessa posizione per otto ore a fotografare la gente accanto ai binari. Quella era la Storia”.
  • Alex Webb e la terribile fotografia che ritrae una mamma con il suo bambino e dietro le Torri Gemelle avvolte nel fumo.“Questa foto ci parla di una tragedia, ma anche del futuro”.
  • Gabriele Basilico e il suo lavoro sulla città di Beirut. Si dedica, inoltre, alla fotografia d’architettura.“Sono un misuratore di spazi. […] Devo trovare la misura giusta tra me, l’occhio e lo spazio”.
  • Abbas e il suo reportage sulla rivoluzione in Iran.“Mi piace pensare di essere una persona che scrive con la luce”.
  • Paolo Pellegrin e il suo progetto in Iraq, in Libano, in Palestina e in Giappone.“[…] Quella che mi interessa di più è una fotografia non finita, dove chi guarda ha la possibilità di cominciare un proprio dialogo”.
  • Sebastiao Salgado e suoi reportages in America Latina, Africa (Sahel, Tanzania, Zaire) e in Europa.“Non sono stato spinto dalla voglia di fare foto belle o di diventare famoso, ma da un senso di responsabilità: io scrivo con la macchina fotografica”.

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