Big Tech e Digital Advertising: non c’è più la pubblicità di una volta

Marco Carnevale: «Se Apple non investe nei social media, chiediamoci perchè». La pubblicità ha ancora bisogno dello spiazzamento per sfuggire al conformismo imperante

Marco Carnevale è un bel nome nell’ambito della comunicazione pubblicitaria italiana. Oltre ad essere stato a lungo direttore creativo della McCann Erickson (ora è partner e direttore creativo dell’agenzia Yes I am), si è distinto per aver vinto numerosi premi di settore e per aver ultimamente assunto una posizione netta (e fortemente critica) rispetto alla digital advertising che troviamo esposta nel suo recente libro: La reclame dell’apocalisse. Una galleria dei deliri e dei disastri della digital advertising” (Prospero editore).

I dati sulle performance pubblicitarie delle piattaforme digitali (Google, Meta, X, eccetera) – ha illustrato Carnevale nella lezione aperta che ha tenuto nella Facoltà di Scienze della Comunicazione Sociale dell’Università Salesiana – sono prodotti dalle stesse Big Tech, ricoprendo così il ruolo di controllori e controllati. «I numeri che i big del digitale forniscono a sostegno della propria efficacia pubblicitaria», sostiene Carnevale, «rappresentano una lucida strategia globale basata sulla sistematica manipolazione dei dati».

Non sazi delle sue argute argomentazioni abbiamo però voluto fargli ancora qualche domanda.

Una volta l’Auditel ci diceva quali erano i programmi di successo e questo era anche un indicatore per gli investimenti pubblicitari, oggi chi ce lo dice su quale social è meglio investire?

«Su cosa è meglio investire in pubblicità ce lo dicono le stesse Big Tech, che sono tutte – nessuna esclusa – in tutto il mondo in testa alle classifiche dei top spender in… pubblicità broadcasting sui canali più tradizionali, in particolare tv generalista e affissione. Fra tutti, il messaggio più chiaro è quello che arriva da Apple – portabandiera della rivoluzione digitale e marchio campione della valorizzazione in borsa – che da sempre investe nei social media lo 0,00% del suo gigantesco budget».

Penso ad alcune belle campagne del passato, all’approccio di Bernbach, il mercato italiano accetterebbe una provocazione che possa partire proprio dal brand? O per questo tipo di libertà è sempre meglio lavorare nell’ambito del non profit?

«La provocazione è un approccio che in certi contesti e su certi temi funziona benissimo, ma è tutt’altro che obbligatorio. Ciò che è sempre necessario è che le campagne siano dotate almeno di una componente di spiazzamento capace, da un lato, di risvegliare l’attenzione e, dall’altro, di svincolare il messaggio dal dominio della calma piatta del conformismo imperante, un registro che azzera all’origine ogni efficacia comunicativa perché inibisce l’impatto, cioè la capacità della pubblicità di generare attenzione. Pare che il lavaggio del cervello a cui le formulette dei tutorial digitali hanno sottoposto le aziende abbiano fatto dimenticare a molti che il mercato della pubblicità è una parte importante del mercato dell’attenzione».

Cosa direbbe ad uno studente che, facendo uno stage presso la sua agenzia, volesse impiegare l’intelligenza artificiale per trovare un’idea?

«Intanto gli direi che, se si aspetta un’idea da un dispositivo concepito come un archivio universale di idee già viste, lette e sentite, può stare fresco. Poi gli suggerirei di usare la sua intelligenza naturale, per capire quanto è importante evitare di far atrofizzare quella parte del suo cervello che – per imparare e migliorare le sue funzioni – utilizza proprio lo sforzo per alimentare e assemblare il pensiero, che l’intelligenza artificiale generativa è progettata per fare al suo posto. Perché in gioco non ci sono solo (si fa per dire) milioni di posti di lavoro, ma la capacità collettiva di preservare, come specie, l’abitudine a svolgere dei processi mentali e delle abilità esecutive, che sono fra le pochissime cose che distinguono l’homo sapiens dagli altri primati».

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