Boros, l’artista che fa incontrare classico e moderno

Nato a Budapest, ama combinare elementi pittorici ed elementi grafici. Un po' raccontando, e un po' nascondendo

L’immagine è menzogna, che può scoprire la verità della vita,
ma a differenza della vita – 

in cui la verità si rivela in seguito
alle leggi di natura – qui possiamo vedere immediatamente.

(A. Boros)


Attila Boros nasce a Budapest nel 1971. Si laurea presso l’Accademia
delle Belle arti dove si specializza in arte grafica. All’età di
ventisei anni riceve il premio Kurt Lasswitz come miglior grafico. A
trent’anni anni organizza una mostra personale e riceve il premio
del pubblico presso il Műcsarnok, la Galleria Moderna di Budapest.

I
suoi quadri combinano in modo unico gli elementi della pittura e
della grafica. Nascono dall’accordo tra colori istintivi ed esperte
basi grafiche. Il suo lavoro è frutto di un continuo sperimentare
con coraggio, oltrepassando i confini dei generi.

Già da questa scarna biografia risalta una delle caratteristiche
fondamentali della produzione dell’artista: il continuo e proficuo
incontro tra i classici e sempiterni ideali artistici e le moderne
tecniche di produzione – artistica -. Frutto di una sperimentazione
nata nel secolo scorso, all’epoca della nascita delle arti
applicate e delle avanguardie storiche.

Boros innesta la novità tecnica nell’ormai stanca e consumata
pianta dell’arte e ci ripropone in maniere sempre nuove e mai
scontate temi tanto antichi eppure, a quanto pare, ancora pieni di
novità da comunicarci.

I temi prediletti sono tra i più umili, semplici e comuni: muse,
esoterico, musica, mediterraneo. Soggetti triti e ritriti. Che
l’artista ungherese sa riportare a nuova vita conciliando il gusto
dei nostri tempi al valore intrinseco e universale della vera opera
d’arte. Insomma, fa quello che dovrebbe saper fare un vero artista.

Prendiamo, ad esempio, il dipinto Hárman,
che in italiano sta a significare proprio Tre,
il numero della perfetta armonia, della musica: un nome, un
programma. Che l’artista riesce magistralmente a rispettare: tre
sono i soggetti del dipinto, nello stesso tempo distinti e
inscindibilmente uniti.

Le forme sono morbide e sinuose, i colori caldi e accoglienti: i
volti di donna ricordano decisamente un Modigliani, ma ancora più
addolcito, ancora più morbido, immortalato nella sua intimità.

Ogni donna è racchiusa in sé – come a custodire ciascuna il suo
personale segreto, una nella musica, una nell’ozio e l’altra
nell’attività – e al contempo in relazione, quasi si svelassero e
completassero solo a vicenda.

La situazione è diametralmente opposta a quella a cui ci poneva di
fronte Picasso nel celeberrimo Les Demoiselles
d’Avignon. Con le quattro donne tutte voltate a fissare
sfacciatamente noi spettatori, in pose rigidamente teatrali.

Eppure i richiami con l’arte del Novecento
non si fanno certo mancare. La ricerca dell’armonia tra soggetto e
spazio circostante – prima di tutto – , che ha segnato l’opera di
numerosi artisti del XX secolo, tra cui sicuramente lo stesso
Picasso. Una ricerca a cui diede inizio Cézanne; si pensi alle sue
innumerevoli rielaborazioni delle Grandi
bagnanti
, nel continuo tentativo di
fondere soggetto e spazio circostante in un unico equilibrio.

In questo caso, però, lo spazio perde
qualsiasi parvenza realistica e si fa a immagine dei soggetti –
piuttosto che viceversa – quasi una loro proiezione esterna, in un
modo che richiama da vicino la corrente espressionista. La quale
comprende, tra l’altro, i poco conosciuti ‘Fauves’
ungheresi.

È il caso dei ritratti di Ödön Márffy (1878-195), dove
il soggetto è circondato da un tripudio di colori che sembrano
estendere la sua personalità, la sua emozionalità al di fuori dei
limiti della corporalità: diventano strumento per comunicare
l’incomunicabile, l’a-razionale. Ciò che è invisibile agli
occhi: l’anima del soggetto.

Forme, colori, dimensioni: nelle opere di Attila Boros sembrano
puntare al raggiungimento di un tutto armonico. Soggetti e spazio
esterno si macchiano l’uno dei colori dell’altro, influenzandosi a
vicenda. Così accade in Szabadban,
che nient’altro vuol dire se non All’aperto.
Si intravede, infatti, in lontananza un sole nascente che accarezza
dolcemente le dormienti – anche qui tre, sempre donne -; ancora
perse in un mondo al confine tra il sogno, da cui vanno uscendo, e la
realtà.

Lo spazio esterno sembra essere espressione della loro condizione
interiore: sembra volerci aiutare a carpire il segreto che ciascuna
custodisce.

In Boros, in effetti, le donne sono il soggetto prediletto e tutte,
bellissime e misteriose, sono immortalate in atteggiamenti raccolti e
riflessivi. Incuranti dello spettatore, ma impegnate ciascuna a
custodire il proprio segreto; mai capita che fissino lo spettatore
con i loro enormi, eleganti occhi a mandorla, se non – raramente – di sottecchi o in tralice. Come in Augusztus,
dove il volto della donna è ritratto in un atteggiamento meditativo
decisamente da Madonna. Tutta la corporalità sinuosamente e
sensualmente volta al raccoglimento.


Non solo donne, però, compaiono nelle sue opere. Boros sicuramente
si interessa anche al legame uomo-donna, a scene corali. Nonché
dalla figura dell’artigiano, l’homo faber: ciò che lui
stesso è. Come l’artista ritratto in A
kerámikus,
Boros è in grado di
raffigurare sulla tela l’uomo in tutta la sua complessità: non
punta a usare i soggetti come semplice pretesto per la scomposizione
delle forme, non ha bisogno di ridurre lo spazio a cubetti per
esprimere il concetto di simultaneità o gli innumerevoli punti di
vista da cui si può considerare uno stesso oggetto, né pretende di
fare dell’arte la mimesi della realtà, la sua copia quanto più
esattamente realistica.

In queste opere i punti di vista che contano
sono altri: il suo naturalmente non manca; è lo sguardo amorevole e
delicato che l’artefice dedica alla sua opera. C’è poi il punto
di vista del soggetto ritratto, che trasmette la sua personalità al
di fuori della propria corporalità, nello spazio circostante
modellandolo a sua immagine e somiglianza. E – infine – quello
dello spettatore che accetta di entrare in dialogo con l’opera. Un
dialogo in cui ognuno dice qualcosa di sé, ma mai si può svelare
completamente in tutto il suo mistero.

Riscoprire l’uomo. Questo è quanto fa Boros,
con tecniche nuove, che rispondono ai nostri moderni gusti, – “a
ciò che piace”, – e hanno un po’ il sapore di stampe e allegri
manifesti. Con un rispetto del mistero e dell’indicibile umano che
impedisce di poterci stancare delle sue tele. Che ci rivelano
qualcosa, ma si ostinano a custodire gelosamente molto di più.

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