28 Nov 2015

Burundi: il conflitto è sempre più duro. Ma l’unica via è il dialogo

Quasi ogni mattina si trovano corpi senza vita sulle strade, ma non si tratta di un genocidio. Anzi, questa parola può essere molto dannosa. E l'unica via di uscita è il dialogo

La situazione politica in Burundi è peggiorata dal 26
aprile 2015, quando l’attuale presidente Nkurunziza ha presentato la sua controversa candidatura al
terzo mandato. Quasi ogni mattina si trovano corpi senza vita sulle strade. Alcuni quartieri si sono mostrati vigorosamente conflittuali
e oggi i ragazzi sono dotati di armi e sparano sulla polizia. Si sente dire che nei
Paesi vicini  si organizzano milizie e questa situazione ha generato un clima
di tensione e di paura. Alcuni oppositori parlano di un genocidio in
gestazione. Però l’uso di questa parola “genocidio” è allarmante e
rimane controverso
.

Un passato carico
di violenze

Già nel 1961, un anno prima
dell’Indipendenza, la popolazione burundese è entrata in una logica di violenze
politiche, militari e poi civili. Così, nel 1962, 1965, 1968, 1972, 1988, 1991,
1993-2005, senza mai riparare i danni passati, le violenze si sono ripetute, costringendo all’esilio migliaia di persone, mentre altri si sono raggruppati nelle
zone interne, più protette. Questi ultimi 12 anni di guerra civile (1993-2005) hanno lasciato un orrore nei cuori. I piccoli hanno visto i grandi morire e viceversa.
L’ultimo movimento armato ha ottenuto il governo solo nel 2008. Tanti hanno
rischiato la morte. Tutti hanno paura della guerra. I beni sono stati distrutti e
rubati. Tante sono le famiglie rimaste senza tetto. Parlare di guerra in
Burundi crea una psicosi nei cuori.

Cuori feriti e
tutti vittime

La lettura psicologica del popolo burundese è
scoraggiante. Infatti il tempo non riconcilia, una nuova generazione non
dimentica il male subito dai genitori. Dopo cinquanta anni, si ricorda
tutto. Hutu e Tutsi sono entrambi vittime dei loro fratelli. I cuori sono stati
feriti e sanguinano ancora. Quasi ogni famiglia ha perso una persona e i traumi
non mancano.

Da 2005 al 2010, la popolazione ha goduto una progressiva
diminuzione della distanza tra le etnie. Il
Governo ha istituito una Commissione per la Verità e la riconciliazione per
statuire sui crimini commessi degli anni 1962-2008. Un processo di
riconciliazione appena iniziato e che deve risvegliare tutto per rinfrescare
la memoria, liberare la parola per arrivare alla verità. La Chiesa cattolica ha
organizzato un sinodo per la riconciliazione e si è sentito un desiderio
ardente di guarire, di rinascere, di scaricare il peso del
passato. Però, è rimasto a metà strada. Ci si sente ancora vittime del
passato e si nutrono aspettative per una certa forma di giustizia. I cuori
non sono tranquilli, hanno paura di rivivere i momenti passati di violenze. Le
parole usate, il genocidio annunciato toccano piaghe sanguinanti.

Un rischio di
violenze a larga scala?

Il terzo mandato del Presidente è stato motivo di sollevazione di un
certo numero di burundesi. Adesso la situazione è diventata complessa.La paura della guerra ha fatto sì che più di
200 milla persone abbiano lasciato il paese, soprattutto quelli che erano in
zone di dimostrazioni o vicine alle frontiere con il Ruanda, la Tanzania
e la RDC. Questa paura è stata aggravata dei gesti di intimidazione e da una
psicosi creata dei media.

In questa parte dell’Africa girano tante armi. Nel Congo
vicino, i rapporti dell’ONU parlano di 70 gruppi armati, mentre le frontiere sono porose. In Burundi, ci sono armi delle mani dei civili. I
processo di disarmo è ancora in corso. L’esercito e la polizia burundese sono composti
secondo le proporzioni consentite tra le due etnie ieri opposte. Il governo e
tutte le istituzioni politiche importanti dello Stato rispecchiano equilibri
etnici.Gli oppositori al governo di
Bujumbura sono Hutu e Tutsi. Lottano per il rispetto dei principi democratici.

Quindi, il sentimento condiviso di vittima, la paura, le
fobie, una giustizia sempre attesa alimentano un rischio di violenze a larga
scala dopo un qualsiasi evento che possa fare da innesco. Dopo dieci anni di populismo del
presidente Nkurunziza, questi 5 mesi di crisi hanno fatto si che, mentre alcuni
lo hanno odiato, altri si sono attaccati ancora di più a lui. Il comportamento
della popolazione con le sue frustrazioni, dell’esercito nella sua composizione
paritaria di Hutu e di Tutsi, della polizia con l’immagine hutu che preso questi
ultimi 5 mesi, dei ragazzi hutu e tusti con le armi in mano sono imprevedibili e
caotici. Un genocidio? Si rischia
piuttosto una terribile violenza che nasconderebbe una forma di vendetta e di auto-protezione.

Questa situazione distingue il Burundi del
2015 dal Rwanda del 1994. Il paragone tra i due è una via semplicistica o
allarmistica, che alcuni media mainstream hanno evitato di fare e specialisti della regione come Jean Pierre Chrétien della regione hanno proibito.

Infatti, la parola “genocidio”, usata per descrivere
questa situazione, allarma e getta sull’opinione internazione
un’allarma di emergenza. Ricorrere a questa chiave di “genocidio” di cui il
significato è ampiamente etnica è pericoloso perché “etnizza” la situazione già
delicata.

Fare uso di una retorica di guerra e di terrore indebolisce di più i
legami sociali. Di fronte ad una situazione così esplosiva, gli uomini politici
e i media internazionali devono procedere ad una scelta giusta delle parole che
usano, pesarle, pensare sette volte prima di parlare.

Quale via
di uscita da questa situazione?

La guerra civile
che ormai è già cominciata non sarà vinta con le armi né con il braccio di
fero da parte dei protagonisti. Più di duecento morti sono stati registrati,
senza contare i poliziotti che la deontologia del corpo tiene a nascondere. La
tensione cresce giorno al giorno e le
famiglie piangono le loro vittime. La fobia e la rabbia risvegliano i traumi degli anni
90. Chi vuole aiutare il popolo burundese gli trovi una via pacifica e non armata. Creare una milizia, significa
dare fuoco alle polveri. Accorciare il processo in qualsiasi modo rischia
di infiammare il paese. La soluzione deve assolutamente venire fuori da un
dialogo tra Burundesi.

La storia recente burundese è un modello di dialogo, di ascolti
vicendevoli e di concessioni politiche. Il Burundi ha fatto un passo sulla via
della riconciliazione, tanto che chiamarsi Tutu e Tutsi stava diventando un motivo di
fierezza e non un’autocondanna: occorre riprendere una via che
salva le vite, risparmia i beni, risana la società e offre una soluzione duratura.

condividi su