Cambiamenti climatici: la lezione viene dal Sahel

Le trasformazioni del clima possono essere analizzate anche partendo da zone specifiche del pianeta: la professoressa Alessandra Giannini (Ecole Normale Supérieure e Columbia University) ci spiega che studiarle aiuta a capire il Sahel e, soprattutto, l'idea e la pratica della sostenibilità

Il Sahel è un’area geografica che, formando una fascia che sfiora il deserto del Sahara, attraversa paesi diversissimi come il Senegal, Mali, Burkina Faso, Niger, Ciad e Mauritania. A caratterizzare alcune di questi Paesi sono anche dei territori sterminati, con aree urbane in espansione e con un tasso di crescita di popolazione in ascesa. Proviamo a capire qual è la situazione con la professoressa Alessandra Giannini, che si occupa da anni dello studio del clima nel Sahel, a raccontare questa zona del mondo in cui «il cambiamento climatico è già successo». La professoressa attualmente si trova all‘Ecole Normale Supérieure di Parigi ed è ricercatrice dell’International Research Institute for Climate and Society (Earth Institute della Columbia University).

Sahel Region
Illustrazione: The Conversation/ Zenobia Ahmed

C’è qualcosa che caratterizza il clima della zona ed è la volatilità e la propensione ad un repentino cambiamento. Se per chi studia il cambiamento climatico questo aspetto può essere visto sotto l’occhio di una sfida verso la sostenibilità, da un punto di vista politico è molto più difficile da razionalizzare. Tant’è che in questi giorni la testata Politico racconta il «moral dilemma» dei paesi europei davanti alle situazioni del Burkina Faso, che si trova esattamente a ridosso della fascia saheliana.

La professoressa Giannini spiega: «Il Sahel è celebre proprio per questa caratteristica; ad esempio negli anni ‘70 e ‘80 tutti sono rimasti sorpresi per il deficit improvviso delle piogge e dalla conseguente siccità. Quello del XX secolo sicuramente è stato uno dei cambiamenti più grossi osservati globalmente».

La professoressa Giannini delinea chiaramente le complessità e la varietà della zona: «Il Sahel si trova al margine del deserto, ogni anno piove con una ricorrenza stagionale ben precisa. Da un punto di vista climatico parliamo del limite estremo della regione che è influenzata dal Monsone africano, quindi c’è una stagione delle piogge ben delineata, che cade solitamente tra giugno e settembre».

Per avere un termine di paragone sulle quantità di piogge di cui si parla, un dato colpisce nettamente: «In posti come una stazione di riferimento ad ovest del Mali, c’è un totale di precipitazioni annuali simile a quello di Parigi (600 mm annui), ma la piovosità in queste zone è distribuita in modo completamente diverso nel corso dell’anno». Nel 2020 in un testo pubblicato su Geophysical Research Letters la professoressa Giannini, insieme al suo gruppo di ricerca, aveva proprio lavorato sull’analisi dei modelli di precipitazione nel Sahel.

Com’è cambiato lo studio del clima?

In 40-50 anni, però, a fare passi avanti non sono solo le consapevolezze sull’affrontare la crisi e le conseguenze dei cambiamenti climatici, ma in prima battuta la modellistica connessa ad una capacità di effettuare previsioni sempre più accurate e puntuali sul contesto globale e locale: «La difficoltà principale nelle zone tropicali – spiega Giannini – è che bisogna considerare scale molto più piccole per simulare il clima stagionale o annuale. Bisogna essere capaci di aggregare i dati delle piccole scale per poi ragionare su ciò che avviene in una determinata macroregione come il Sahel intero, che comprende migliaia di km. I processi che producono le precipitazioni avvengono alla scala dei temporali e fare queste singole rappresentazioni zona per zona ci aiuta a caratterizzare poi la scala di tutta l’area».

I modelli climatici hanno rappresentato un grande avanzamento dall’introduzione, ad esempio, del General Circulation Model (GCM), utilizzato per studiare in che modo i processi connessi alla terra, all’atmosfera e agli oceani influiscono sul clima. I modelli climatici sono rappresentati da formule che vengono attualmente risolte e studiate anche tramite supercomputer e intelligenza artificiale. Uno dei primi scienziati a ragionare sulle potenzialità e l’utilità di questi strumenti fu Joseph Smagorinsky, primo storico direttore del Geophysical Fluid Dynamics Laboratory, importante laboratorio di ricerca della National Oceanic and Atmospheric Administration (NOAA).

La costruzione di un modello climatico è un equilibrio estremamente complesso per gli scienziati del clima, che si trovano a ragionare con diversi parametri e dinamiche che rientrano talvolta in maniera impercettibile nella definizione del modello. Pensiamo al caso della siccità avvenuta negli anni ’70 – ’80 in Sahel, che oggi sappiamo connessa ad una variazione impercettibile di temperatura nell’oceano. La professoressa Giannini ci spiega, inoltre, l’utilità previsionale di questi strumenti: «con i modelli è possibile fare questo tipo di azione in cui si fa evolvere e si cambia la temperatura dell’oceano, successivamente si va a vedere se con un determinato cambiamento si arriva a capire poi la variazione riscontrata, ad esempio nel livello di piogge». Determinante per costruire l’ampio apparato di modellistica è un aspetto forse tralasciato nel racconto delle scienze climatiche: la multidisciplinarietà.

«Le scienze del clima per loro natura sono multidisciplinari – ha spiegato la ricercatrice – la matematica, ad esempio, è estremamente coinvolta nella modellistica, ma bisogna sapere anche inserire la fisica che è implicata nello studio dei processi atmosferici. La chimica anche è molto importante per capire come i cambiamenti dei gas influenzano i processi climatici. Poi ovviamente c’è tutta la parte che si occupa di capire gli impatti e le vulnerabilità da un punto di vista sociale».
Dall’informatica, alla matematica passando per lo studio della geopolitica delle nazioni, ecco l’ampio spettro che ci si trova ad analizzare addentrandosi nelle scienze del clima.  Non a caso, in uno degli ultimi studi di cui la Giannini è autrice, è stato analizzato il rapporto tra shock climatici e sicurezza alimentare, con un particolare occhio di riferimento al Senegal, confine ad ovest della fascia del Sahel.

Studiare quest’area geografica partendo dalla prospettiva e con la lente di ingrandimento del cambiamento climatico pone sfide, ma mostra anche opportunità: «Dall’esterno si ha un’impressione che questa sia una zona principalmente legata ad una coltivazione connessa a piccoli coltivatori in balia dell’effetto del clima. In realtà – come spiega la professoressa – questa è una zona in rapida espansione, con una grande urbanizzazione, e poiché c’è stata siccità, in alcune aree c’è stato un grande cambiamento nel modo di rapportarsi all’ambiente. In alcuni villaggi, ad esempio, si sono riscoperte conoscenze locali su come gestire l’ambiente, soprattutto per quanto riguarda il capire come relazionarsi con la stagione delle piogge».

 

Pensare alla sostenibilità in Sahel significa ragionare sui grandi centri urbani in espansione, ma anche osservare come cambiano le attività dei piccoli coltivatori in zone rurali e nei villaggi più remoti. Da questo punto di vista, ad esempio, ci sono programmi di studio e ricerca che permettono agli agricoltori di capire come effettuare una serie di scelte per le coltivazioni dell’anno, ma vale la pena ricordare sempre che «le previsioni sono probabilistiche e non ci sono programmi invasivi, si cerca semplicemente di capire come strutturare e ridurre il rischio per le coltivazioni».

Confrontarsi con un’area sterminata, ricca e complessa socialmente e geograficamente come il Sahel, porta però a capire un aspetto determinante per gli obiettivi del 2030 e del 2050 che le varie istituzioni internazionali fissano con più o meno ambizioni: «da un punto di vista istituzionale e politico, globalmente parlando, manca un po’ la consapevolezza che le siccità che sono avvenute in passato hanno già l’impronta umana dovuta alle nostre emissioni – spiega Giannini -. Allo stesso tempo, però, noi oggi non sappiamo se il cambiamento climatico futuro sarà legato necessariamente a delle siccità».
In questo contesto sicuramente possiamo concludere che, nonostante i grandi avanzamenti nelle tecnologie di previsione, a contare sono anche e soprattutto le azioni e le scelte strategiche degli enti locali e globali.

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