08 Mag 2017

Colombia. Una pace imperfetta è meglio di una guerra perfetta

I recenti accordi di pace sono stati una svolta fondamentale, ma il vero lavoro - costruire giustizia sociale - comincia adesso. Intervista con Mons. Luis Augusto Castro

La Colombia – dopo a 50 anni di guerra, morte e conflitto
interno tra il governo e le Farc (Fuerzas Armadas Revolucionarias
de Colombia) – si avvicina la luce della pace, grazie al processo di
negoziazione che si è svolto a Cuba. Per caprie meglio il processo di
pacificazione, abbiamo intervistato monsignor Luis Augusto Castro, Presidente
della conferenza episcopale colombiana. La massima autorità della Chiesa cattolica
di Colombia, Monsignor Castro, è un uomo che ha dedicato gran parte della sua
vita alla ricerca della pace. Con la certezza che l’uscita dal conflitto deve
essere negoziata.

 

Il 24 di novembre del
2016 è stato firmato l’accordo di pace tra il governo e i guerriglieri delle
Farc. Come ha ricevuto la notizia?

«Con molta gioia, però soprattutto con grande speranza.
Perché l’importante non è che si finisca la guerra, che è il motivo per cui si
lavora all’Avana. È decisivo quello che viene dopo, il dopo-conflitt
costruire una Colombia nuova che modifichi gli errori che hanno originato il
conflitto».

 

Come definire
l’accordo con le Farc?

«L’ONU ci ha invitato a tenere presenti diversi termini:
“fare le paci”, fermare la guerra e costruire la pace. E molta gente pensa che quello
che si è fatto all’Avana era costruire la pace, ma non è così. Quello che si è
fatto lì è stato fermare la guerra, e adesso possiamo iniziare a costruire la
pace. È come quando un contadino deve seminare di nuov per prima cosa deve
dissodare la terra per prepararla e così poi si può seminare. È quello che ci
aspetta adesso».

 

Con l’accordo di pace
possiamo dire che è finita la guerra?

«No, la pace inizia con la ricostruzione del Paese e la
ricostruzione avverrà nel dopo-conflitto. Ci siamo concentrati sulla prima
parte, che è fermare la guerra, e così non pensiamo alla seconda, che è la più
importante: costruire questa nazione. Su questo ci dobbiamo impegnare tutti. Ci
prenderà 10 o 15 anni, però sarà una fase di grande crescita».

 

Nell’accordo sono
state definite alcune zone in cui verranno raccolti i guerriglieri. C’è paura,
nei campi dove staranno i guerriglieri?

«Quelli saranno luoghi ben protetti, in diversi modi. Ci
saranno lì le Nazione Unite e diverse organizzazioni, che garantiranno la
sicurezza per chi sta dentro e per chi sta fuori. Non è il caso di aver paura.
È una cosa transitoria, non durerà anni (saranno 180 giorni). È un periodo
transitorio per facilitare la consegna delle armi e la reintegrazione nella vita
civile dei guerriglieri».

 

Un’altra paura
diffusa è che i guerriglieri prendano di nuovo le armi e migrino in altri
gruppi armati.

 

«Le Farc hanno una organizzazione gerarchica ben
definita, con i capi definiti, che stano facendo pedagogia perché i
guerriglieri capiscano il compromesso che stano assumendo. E se qualcuno dei
guerriglieri passa ad un altro gruppo armato, come per esempio le “Bacrim”, non
sarà più un ex-guerrigliero, ma un delinquente e basta, e dovrà pagare come un
delinquente».

Gli oppositori del
processo di pace criticano e dicono che ci sarà la pace pero grazie all’impunità.
Come risponderli?

«È una delle accuse più false che si possano fare al
processo. Il processo giuridico è stato lodato a livello internazionale, perché
dà a ogni guerrigliero la possibilità di dire la verità. Dire la verità può
portare a ottenere benefici, però comporta anche conseguenze. E ci sarà il processo
giudiziario. Chi non dirà la verità o mentirà, sentirà il peso della legge.
 Naturalmente quelli che hanno commesso crimini atroci, non avranno
l’amnistia. Quindi, dov’è l’impunità? Ci sarà un tribunale di giustizia con
giudici di alto livello e garantirà che non ci sia impunità».

 

E quali sono le sfide
del post-conflitto?

«Perché la pace sia sostenibile si deve comprendere che c’è
bisogno di una politica includente, che dia a tutti la possibilità di parlare e
partecipare.  La Colombia non ha una economia solidale: c’è un’economia
che dà benefici soltanto a pochi. Costruire una economia solidale è una delle
sfide più importanti per costruire una Colombia nuova, che deve pensare a più
del 52 per cento del territorio, abbandonato negli anni di guerra».

 

Quali sono le sfide sul
piano sociale?

«Il senso della fine del conflitt è che la giustizia
sociale arrivi per tutti, che non ci siano colombiani di seconda e terza
categoria, anzi che tutti abbiano l’opportunità di crescere in libertà, di
formarsi e di vivere sanamente».  

 

Qual è il ruolo della
Chiesa nel post-conflitto?

«Si deve lavorare in termini di riconciliazione, perdono,
tolleranza. Se continuiamo nella logica dell’occhio per occhio e dente per
dente, torneremo alla guerra. Si deve accettare chi è differente, diverso. L’orizzonte
è buio quando la testa è ben educata ma non si coltiva il cuore, non si insegna
a vivere, a perdonare, a compartire, e questo è importante per costruire una
nazione nuova. Questo mi sembra deve essere il lavoro della chiesa: lavorare nel
campo dell’educazione».

 

Come fronteggiare le
difficoltà che sorgeranno?

«La pace si sta gestendo. Potrebbe andare meglio, senza
dubbio. Non sarà una pace perfetta, però è sicuramente meglio di una guerra
perfetta».

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