Storia n. 1. Una domenica di giugno, vado a donare il sangue. Vengo accolto da un manifesto con la scritta: «Meglio un bagno di sangue che un bagno al mare». In alto, a mo’ di occhiello, «Solo oggi».
Penso a uno scherzo, ma il posizionamento del messaggio e l’espressione seria dei responsabili fanno capire che il messaggio è voluto. Poi, steso sul lettino, sento che medico, infermieri e donatori, a mezza voce, non parlano d’altro. Se ne accorge anche l’ideatore della scritta, che si conferma nella convinzione d’aver fatto bene: «Ne state discutendo? Allora la comunicazione ha funzionato alla grande». Non pensando che i vecchi donatori sarebbero andati a donare comunque, senza bisogno di quella spinta, e non domandandosi quanti donatori nuovi siano stati invogliati a donare.
Storia n. 2. Nell’ingresso del palazzo un nuovo condomino sta appendendo un foglio, sul quale si scusa per il disturbo arrecato dai lavori di ristrutturazione del suo appartamento. Mi sembra un bel gesto, pieno di rispetto e inconsueto, con un solo difetto: la scritta è talmente piccola che si legge a malapena. Per questo suggerisco di farla un po’ più grande. Una terza persona obietta: «No, il messaggio si nota proprio perché è invisibile. Attrae, perché innesca la curiosità di scoprire che diavolo contiene».
Ne esco a pezzi, con la sensazione che – nella comunicazione – non esistano regole. O che ognuno si faccia le proprie. O che le regole valgano per chiunque tranne che per sé. Lo sconforto mi fa venire in mente la battuta di un film di Jean Renoir: «In questo mondo la cosa spaventosa è che ognuno ha le proprie ragioni».
Cerco consolazione in un’altra battuta, anche questa di un regista, Billy Wilder: «Molti mentono. Lanciano delle frecce contro il muro e poi vi disegnano intorno il bersaglio».
Dulcis in fundo, un titolo letto su un giornale di oggi: «L’ossessione di stupire uccide l’architettura». Non uccide anche la comunicazione?