
Il rapporto tra l’individuo umano e l’individuo animale ha subìto, nel corso della storia dell’uomo, una straordinaria evoluzione, fino a raggiungere nell’attuale società occidentale contemporanea una caratterizzazione assolutamente nuova e ricca di aspetti originali e fortemente positivi, sebbene non manchino anche elementi critici che meritano considerazione.
Mi riferisco all’ambito degli animali domestici e, all’interno di questo, a quello degli “animali da compagnia”, quelli con i quali, per intenderci, gli esseri umani convivono per compagnia o intrattenimento.
Un mercato in espansione
Innanzitutto, la considerazione dell’animale – per esemplificazione e diffusione, faremo riferimento soprattutto ai cani e ai gatti, sebbene il fenomeno sia assai più variegato – quale “membro della famiglia”; quindi, prenderemo in considerazione la cosiddetta petcare, o “cura dell’animale da compagnia”, e l’ormai diffusissima pet therapy, cioè il ricorso all’animale da compagnia come risorsa per la cura o il supporto verso il benessere psicologico, ma anche in ambito riabilitativo, nonché educativo o ri-educativo. Infine, saranno prese in considerazione alcune situazioni limite o, comunque, alcuni possibili rischi e derive da attenzionare.
Per quanto riguarda la petcare, cioè la cura degli animali da compagnia, va registrato un formidabile incremento dei relativi servizi – quali toelettatura, alimentazioni, pet-sitter, veterinaria, luoghi per l’accoglienza fino a veri e propri hotel di vario livello, eccetera – con un aumento che si aggira tra il 28% e il 40%, e questo limitatamente alla situazione italiana nel periodo che va dal 2019 ad oggi.
Appare dunque evidente come si tratti di un settore economico in considerevole sviluppo, con un progressivo incremento del fatturato che ha nel 2025 è stimato intorno ai 4 miliardi di euro.
Una questione di affetti
Tale crescita va collegata alla considerazione dell’animale da compagnia, vissuto sempre più come membro della famiglia stessa, col passaggio da un significato di tipo utilitaristico a uno sempre più affettivo. Ancor prima di questa diffusa consapevolezza, d’altra parte, si era evidenziato la correlazione tra la presenza di un animale domestico e il benessere psicologico delle persone, soprattutto in relazione a fattori quali la riduzione dello stress, la promozione della socializzazione, dell’empatia e del senso di responsabilità verso l’altro da sé.
Tale evidenza ha trovato piena applicazione nei programmi di pet therapy, fino ad assumere sempre più un carattere preventivo ed educativo, fino all’inserimento a pieno titolo dell’animale domestico nel contesto delle relazioni affettive umane e familiari.
Accanto all’indiscussa rilevanza e positività di quanto sopra descritto, sebbene in estrema sintesi, d’altra parte vanno anche registrate alcune esasperazioni che, come detto, richiedono quanto meno di essere prese in considerazione per evitare il rischio di derive problematiche.
Il problema dei lutti plurimi
A questo riguardo, ad esempio, il sempre maggiore inserimento dell’animale domestico nel contesto familiare e, quindi, nell’ambito delle relazioni intime – a volte, il cane e il gatto viene vissuto, anche in relazione al linguaggio utilizzato, come un figlio, con gli adulti che assumono il ruolo di “genitori” e “nonni” e i più giovani di “fratelli” e sorelle”. Ebbene, laddove tale significazione affettiva ed emotiva venga eccessivamente enfatizzata, quello a cui le persone si esporranno sarà non solo, in positivo, del godimento di relazioni significative con l’animale in questione, ma anche conseguentemente a impegnative elaborazioni del lutto – come si sta già rilevando nella pratica clinica e psicoterapeutica – assolutamente in linea con il livello di profondità relazionale stabilito con proprio animale domestico.
In realtà, in riferimento a ciò, la novità è che l’essere umano non sembra essere strutturalmente predisposto a vivere lutti plurimi altamente traumatici. Perché si fa riferimento a lutti plurimi? Abbiamo detto che spesso si assiste a relazioni uomo-animale che si conformano sul paradigma genitore-figlio. La differenza è che mentre un genitore vive raramente la tragedia della morte del proprio figlio, il “genitore” di un “figlio” animale dovrà prepararsi a vivere fino a 5/6 volte la morte del “figlio” nell’arco della propria vita. In considerazione del fatto che la vita media di cani/gatti oscilla tra i 10 e i 20 anni, a seconda di vari fattori coinvolti, tra cui razza, dimensioni, stile di vita e cure ricevute. Addirittura, in famiglie in cui sono presenti più individui animali, potrebbero anche verificarsi casi di lutti sovrapposti, con la morte di un animale quando la persona è ancora alle prese con l’elaborazione del lutto dell’animale morto precedentemente. Va anche detto, a questo riguardo, che i veterinari lamentano che, spesso, al momento della morte dell’animale, i padroni non riescono a stare loro accanto, abbandonandoli nel momento in cui avrebbero invece più bisogno della loro presenza.
In tal senso, sarà opportuno investire in formazione verso psicologi in grado sia di porre in atto interventi di educazione alla relazione con l’animale “membro della famiglia”, sia di accompagnare le persone nell’elaborazione del lutto dei propri “figli a quattro zampe”.
Il rischio della rivalità
Un altro rischio da considerare, questo certamente più estremo, ma che richiede comunque una riflessione, è legato al fenomeno noto, tra gli umani, come “rivalità fraterna”.
Infatti, sempre più coppie, prima di avere il primo figlio accolgono, ad esempio, un cane che, spesso, acquisisce l’abitudine di condividere gli spazi più intimi della famiglia, compreso il “lettone”. Magari, alla nascita del primo figlio, questi andrà ad occupare il “territorio” che, per gli anni precedenti alla nascita del figlio, aveva occupato quel cane. A questo riguardo, mia madre mi raccontava che mio fratello, di tre anni maggiore, tendeva a versare acqua gelata nel mio “bagnetto”, segno evidente di gelosia e di rivalità, appunto, per essere stato “spodestato”. Mi chiedo se, invece, di mio fratello di tre anni, che più di tanto non era in grado di “offendere”, cosa sarebbe potuto accadere se si fosse trattato, ad esempio, di un pitbull o di un doberman di tre anni? Forse alcuni recenti casi di cronaca potrebbero anche essere spiegati in questo senso.
Certamente, la responsabilità non sarà mai dell’animale domestico, ma è piuttosto necessario che i padroni manifestino caratteristiche di maturità, buon senso e misura nel loro relazionarsi al proprio animale domestico, vivendolo non semplicemente in funzione dei propri bisogni, ma delle sue caratteristiche e individualità.