«Era il mese di novembre 2019. Un gruppo di giovani del mio piccolo paese in provincia di Torino si stava impegnando da tempo nella racconta di indumenti, medicinali, quaderni, penne…». Così inizia il racconto di Sofia: guardando questi ragazzi, all’incirca della sua età, che si preparavano a partire per il Burkina Faso.
Poi, quasi improvvisamente, su quell’aereo per Ouagadougou – la mattina del 20 dicembre 2019 – si è ritrovata anche lei. Una delle ragazze del gruppo non era potuta partire e Sofia, senza pensarci troppo, ha preso il suo posto. Cambio di biglietti e documenti all’ultimo, «per fortuna il passaporto era già pronto in un cassetto», racconta.
«Sono partita molto emozionata, forse quasi ingenuamente. Ho avuto poco tempo per metabolizzare. Avevo 20 anni e quello sarebbe stato il mio primo Natale fuori casa, per di più in un altro continente. Nessuno, però, mi ha opposto resistenze. Anzi, negli ultimi giorni prima della partenza c’erano ancora persone che mi portavano vestiti e materiale da cartoleria. Sono rimasta impressionata dal fatto che sia bastato il passaparola per smuovere così tanta gente. E oltretutto erano cose belle, alcune nuove. Ho pensato come davvero abbia ragione Ernesto Olivero, fondatore del Sermig di Torino: il bene va fatto bene!».
Tutti i compagni di viaggio li ha conosciuti in aeroporto a Roma, dove sono partiti: cinque da Torino, due dalla Sicilia e sei da Roma, più un sacerdote che li accompagnava. «Avevamo delle valige così grandi che sembrava partissimo per almeno un anno, invece erano solo 10 giorni». In realtà, le due valige grandi che ha portato contenevano solamente il materiale donato e raccolto; mentre il bagaglio a mano era per le sue cose.
L’aereo atterra a Ouagadougou, capitale del Burkina Faso, alle 23. Il viaggio lungo, le file per il visto, le valigie che non arrivano e, infine, il viaggio in macchina verso la casa in cui sarebbero stati ospitati. «Non è stato un arrivo facile. Eravamo sconvolti e stanchi. Lo confesso: avevo già iniziato a contare i giorni che mancavano al rientro».
Ma il giorno dopo tutto cambia. Escono per le strade della capitale e lì la gioia li contagia.
«È vero, lo dicono tutti: “In Africa sono tutti felici”. Uno stereotipo? Non lo so. Io so solo che quando esco per strada, nella mia città e in mille altre, non c’è nessuno che mi saluta se non mi conosce e sorrisi ne vedo pochi». Da subito la colpisce l’unità della gente: i bambini giocano e vanno a scuola insieme, le donne al mercato sono in gruppo… «C’era un così gran chiasso… ma che gioia nell’aria. Proprio non ci ero abituata».
Il gruppo si muoveva tra i villaggi su di un pulmino vecchio e trasandato; le strade non sono quelle a cui siamo abituati noi. Portavano riso e vestiti alle comunità, medicinali ai piccoli ospedali e quaderni alle scuole.
«Ogni giorno donavamo tutto ciò che avevamo portato con noi. C’è una scena che penso non dimenticherò mai: avevo con me un succo di frutta, di quelli piccoli che stanno sul palmo di una mano. C’erano 5 bambini nel villaggio di Gallagoh e subito ho pensato di donarglielo. I bambini hanno iniziato a passarselo a turno, bagnandosi solo le labbra per far sì che bastasse per tutti».
Ogni giorno donavano tutto ciò che avevano, anche un succo di frutta, ma la scoperta grande è stata che, una volta terminata la giornata, sentivano di avere ricevuto molto di più di ciò che avevano donato. «È una sensazione difficile da spiegare, ma chi ha mai donato il suo tempo, abilità o presenza in modo gratuito almeno una volta, la conosce bene». «Ero partita con la presunzione tipica di noi occidentali, quella di andare a salvarli. Ma posso dire con assoluta certezza che non hanno bisogno di noi. Ci vorrebbe un ‘mondo fatto meglio’, un mondo in cui i poteri non hanno interessi, se non quelli della gente. Un mondo in cui la ricchezza è distribuita equamente».
Quella decina di giorni è passata così in fretta. Hanno girato vari villaggi, tra cui Goolin, Niongwarbin e Senan. Condividevano la vita quotidiana con la gente del posto, anche mangiando con loro. «Le forchette c’erano sempre per i nassara, gli uomini bianchi: per loro l’ospite va trattato con molta cura. Ma loro mangiavano con le mani e anche noi abbiamo voluto provare. Ci hanno dovuto insegnare a prendere il riso con le dita e questo mi fa sempre ridere, ogni volta che ci penso».
«Il giorno di Natale lo abbiamo passato in una comunità. Durante la cerimonia alcune donne hanno ballato con un cesto posto sulla testa. Era un ringraziamento per le abbondanze che riceveranno nei mesi futuri. È stata bella e diversa questa prospettiva: io spesso guardo a quello che ho oggi e, a volte, neanche ringrazio o sono grata. Loro ringraziano per ciò che ancora non hanno».
Il 30 dicembre Sofia lascia quella terra, «ma non per sempre. È come se avessi lasciato un pezzo di cuore in Burkina e, prima o poi, tornerò a riprendermelo. È una certezza».
Nel suo diario, al termine del viaggio, scriveva:
Torno a casa con il sapore della speranza. Con un desiderio sempre più grande di investire sulle vite nascoste nelle periferie del mondo. Sempre più certa che la forma più propria dell’essere umano stia nella condivisione e nella cura per il più debole
Tornata da quel viaggio ha ripreso i suoi studi in infermieristica. La pandemia sarebbe iniziata da lì a pochi mesi e i suoi mesi di tirocinio li ha svolti non tra le periferie del mondo, ma tra le corsie del reparto di medicina interna dove ha coltivato la cura del più debole. Anche di chi non aveva più speranze.