Dalla religione, oppio dei popoli, all’oppio, religione dei popoli

C’è stato e c’è chi vive la fede come un antidoto alla sofferenza. Oggi, in questo senso, la fede è stata sostituita da altre dipendenze. Ma la vera scelta è se affrontare con Dio o senza Dio gli eventi dolorosi della vita

Nel 1843, Karl Marx scriveva di una “religione, oppio dei popoli”. La stessa espressione fu evidenziata da molti altri autori del XIX secolo. Essa indicava come gli individui ricorressero alla pratica religiosa per ovviare alle angosce esistenziali e al senso di oppressione da parte delle classi dominanti. Pertanto, il sentimento religioso riusciva a placare l’inquietudine personale, ma solo come aspetto illusorio, non reale: «La religione è una sorta di alcool spirituale, in cui gli schiavi del capitale annegano la loro immagine umana, la loro richiesta di una vita più o meno degna dell’uomo» (Lenin).

Non molti anni dopo l’enunciato di Marx, fu Sigmund Freud, padre della psicoanalisi e della psicologia moderna, a denunciare tale ricaduta palliativa della religione nella vita degli individui. L’uomo, per lo psichiatra viennese, vive oppresso a causa di tre grandi angosce: per la vulnerabilità del proprio corpo; per le forze soverchianti della natura e, infine, per la sfiducia nelle istituzioni. Pertanto, l’uomo proietta nel Cielo l’immagine di un Padre onnipotente, capace di proteggerlo come una sorta di talismano da ogni tipo di pericolo e sventura.

La fede come anestetico

In effetti, Freud – la cui attività era generalmente rivolta a pazienti nevrotici, sui quali formulava anche le proprie ipotesi – evidenzia il ruolo pacificatorio di un’esperienza religiosa immatura. Infatti, sono molte le persone che vivono l’esperienza religiosa come un antidoto alla sofferenza. L’atteggiamento è più o meno il seguente: «Se andrò a Messa tutte le domeniche, pregherò e osserverò i comandamenti divini, non mi accadrà nulla e Dio proteggerà me e i miei cari». Appare evidente come tale atteggiamento di “fede” andrà in crisi al primo evento avverso, che porterà il “credente” ad arrabbiarsi con Dio, reo di non aver mantenuto fede al patto, un patto che, in realtà il “credente” aveva stipulato con sé stesso più che con Dio. Interessante, a questo riguardo, evidenziare come nella letteratura i “patti” più che con Dio vengono stipulati con il demonio (cfr. Il Faust di Johann Wolfgang Goethe o Il ritratto di Dorian Gray di Oscar Wilde).

In effetti, la fede matura spingerà a scegliere non tanto tra una vita con o senza eventi avversi – che di solito caratterizzano qualsiasi esistenza – quanto piuttosto se affrontare con Dio o senza Dio tali eventi.

Ma torniamo ora alla funzione illusoria, palliativa della religione. Ma, a questo punto, considerando la crisi generale delle grandi tradizioni religiose e il diffuso svuotamento delle chiese, soprattutto in relazione alle fasce più giovani, sorge spontanea una domanda: attualmente, chi svolgerebbe il ruolo anestetizzante, evidenziato da Marx, Freud e altri, in passato assicurato dalla fede? Lo psichiatra viennese riteneva che l’azione di rassicurazione sarebbe stata svolta dalla psicoanalisi e più diffusamente dalla scienza, che avrebbe sostituito nell’uomo adulto l’infantile sentimento religioso e la credenza in Dio. In effetti, come evidenziato anche dalla recente pandemia, dalle guerre contemporanee e dal perdurare della presenza di diffusi disagi e sperequazioni sociali, non sembra che tale passaggio di testimone si sia verificato. E allora?

Le nuove dipendenze

Beh, personalmente ho coniato un nuovo slogan che riprende e corregge quello di Marx, e cioè non più “religione, oppio dei popoli”, bensì “oppio, religione dei popoli”! Pertanto, oggi l’azione anestetizzante rispetto alle angosce esistenziali – che continuano a caratterizzare la vita umana – è svolta non più dalla religione come “oppio”, ma direttamente dalla dipendenza non solo da sostanze psicoattive ma anche da quelle che oggi vengono definite “dipendenze comportamentali”.

In tal senso, privando l’uomo della dimensione religiosa e spirituale, non si è risolto il tema dell’angoscia dinanzi alla vita – caro alle correnti filosofiche e psicologiche esistenzialiste – e moltissime persone ricorrono, più o meno consapevolmente, a questa o quella dipendenza per “anestetizzare” appunto questo senso di paura e oppressione dinanzi agli appelli rivolti a ciascuno dalla vita stessa. Basti pensare al sempre più diffuso consumo di alcol, soprattutto tra i più giovani, con gli ormai immancabili “aperitivi” che si moltiplicano non solo quotidianamente, ma anche e soprattutto come veri e propri flashmob che tendono poi a diventare tradizionali appuntamenti, come ad esempio agli oceanici aperitivi delle vigilie di Natale e di Capodanno, etc. A questo fenomeno, si aggiungono le dipendenze da sostanze stupefacenti, vecchie e nuove: dalla cocaina e, meno, dall’eroina, fino alle più recenti, come il Fentanyl e altre droghe sintetiche.

Ma, come accennato, alle sostanze psicoattive – alcol e droga – vanno anche aggiunte dipendenze comportamentali come quella da internet (social e videogiochi), dal sesso, dallo shopping compulsivo, dal cibo, dal gioco d’azzardo e fino alla dipendenza dalla ricerca di confort zone autolesive, come nel caso dell’hikikomori.

Forse sarebbe il caso di riconsiderare le “soluzioni” indicate da Marx e Freud, per ritornare alla dimensione religiosa e spirituale quale importante risorsa per fronteggiare la vita nei suoi molteplici aspetti e verso un maturo orientamento di senso.

condividi su