In cima alla classifica c’è il Rwanda, il cui Parlamento è costituito per il 64% da donne, seguito da Andorra (50%) e Cuba49%). Seguono i paesi del Nord Europa: Svezia, Norvegia, Finlandia, Danimarca, Olanda hanno tra il 43 e il 50% di elette. Poi ci sono due paesi che, come il Rwanda, hanno visto aumentare la presenza delle donne in Parlamento quando sono usciti da lunghi conflitti e dovevano ricostruire la pace: Sud Africa e Nicaragua hanno raggiunto percentuali tra il 42 e il 40%.
I dati sono del 2013 e sono stati oggetto di riflessione questa mattina, durante il convegno “Donna è…”, organizzato dalla Rai e in corso a Roma fino a domani. Ne ha parlato la parlamentare Mari Johanna Kiviniemi, che ha ribadito l’importanza della partecipazione politica delle donne, e non solo nei settori dove la loro presenza è ormai consolidata (come quello delle politiche sociali), ma anche in altri dove invece la presenza è rarefatta, come la politica estera o le finanze.
Nella classifica delle parlamentari l’Italia si colloca al 29simo posto, col 31% delle presenza in Parlamento. Ma questo risultato è dovuto al “repentino” salto in avanti avvenuto con le ultime elezioni, dovuto soprattutto all’impegno di un partito, il PD, il cui leader Matteo Renzi ha voluto un governo con il 50% dei ministri donne. A due donne sono stai affidati anche lo Sviluppo economico e gli Esteri, per la prima volta nella storia del nostro Paese.
Un salto in avanti che dimostra che sì, è possibile fare spazio alle donne anche nelle alte sfere della politica, ma che resta per ora un buon esempio che non ha riscontro negli altri livelli della partecipazione: le donne restano solo l’11% dei sindaci e il 12% dei presidenti delle province, ad esempio, come ha ricordato Linda Laura Sabbadini dell’Istat. Che ha spiegato anche come i dati dicano che tra le donne è aumentata la voglia di partecipazione – non tanto nei partiti, quanto nell’impegno a informarsi, a seguire manifestazioni e a entrare nei dibattiti – proprio nel momento in cui aumenta l’astensionismo elettorale.
Insomma, c’è ancora molto da fare perché la democrazia italiana diventi più ricca e matura, valorizzando a tutti i livelli della politica le donne, la cui presenza – quando c’è – si sente, perché sono più interessate degli uomini allo sviluppo del welfare e, quando hanno potere decisionale, spostano la spesa pubblica su voci altrimenti trascurate, come ha detto Paola Profeta dell’Università Bocconi di Milano. Ad esempio, la spostano verso le politiche per la famiglia (più nidi, conciliazione degli orari di lavoro, congedi parentali…).
La presenza delle donne in politica non è una questione non solo di diritti, ma anche di modello di sviluppo e di qualità della vita democratica. Dalle ricerce della Profeta emerge che, nel breve periodo in cui negli enti locali sono state apllicate le quote rosa, non solo sono entrate più donne nelle Amministrazioni, ma la qualità media delle candidature – anche di quelle maschili – è aumentata: di fatto, le quote sono state un’apertura alla meritocrazia.
Non a caso, il motivo fondamentale per cui le donne fino ad ora hanno faticato a trovare spazi in politica è che in politica si entra e si fa carriera per cooptazione, non per concorso o attraverso meccanismi di selezione “oggettivi”. E gli uomini preferisco cooptare uomini.