04 Set 2014

Diario di bordo: destinazione Mozambico. Due

Un viaggio di quindici giorni a Mafuiane, un villaggio del Mozambico, nel continente africano. Cronaca di una volontaria con il mal d'Africa

Esco dall’aeroporto con
ciabattine e maglia a maniche corte.

Pelle d’oca, non solo per l’euforica
sensazione di “we did it!” tipica di un lungo viaggio, ma soprattutto in senso
letterale.

Borbotto tra me e me. A luglio,
fa freddo.

A luglio fa freddo, serve un maglione. A luglio fa freddo, serve un
maglione e questo è perfettamente normale se sei in Africa, visto che in questo
periodo è inverno; se solo potessi aprire la valigia per un attimo… Mi
trattengo dal non imprecare in aramaico contro la mia sbadataggine e osservo
con occhioni spalancati, a metà tra meraviglia ed adulazione, i ragazzi di
Mafuiane che sono venuti a prenderci, sbracciati e per nulla infastiditi dal
tempo incerto.

Per arrivare dall’aeroporto di
Maputo fino a Mafuiane, passando per la periferia, saliamo con le valigie su un
camioncino. Questo mezzo ha visto sicuramente tempi migliori, e le  auto parcheggiate nelle vicinanze non sono da
men moltissimi modelli spuntano fuori dal cassetto dei ricordi d’infanzia,
quasi a pavoneggiarsi dei graffi e delle ammaccature davanti agli sparuti
autoveicoli di stampo più recente.

Intorno all’aeroporto, il nulla. Il bianco
della vettura si staglia in un orizzonte di terra rossa.

Arriviamo al “barrio”, la
periferia della capitale. Baraccopoli immense, fatte di fango e paglia, sono
nascoste dietro muri alti e rinforzati in alto da spunzoni e filo spinato,
abbelliti da disegni. All’inizio faccio fatica a capire che disegni siano, ma
quando ci avviciniamo è tutto più chiar si tratta di pubblicità verniciate
sopra mattoni impastati con fango e gesso. Le pubblicità diventano sempre più
riconoscibili: Coca-cola, Vodacom (la Vodafone africana), Fanta; molti marchi
riconosciuti in tutto il mondo troneggiano vistosi sulla miseria, come se
fossero i veri testimoni di questo scempio all’umanità. Spot a colori e persone
in bianco e nero.

Accanto alle baracche, case in muratura, con dettagli in
vetro ed acciaio, lussuosissime. Il confine tra povertà e ricchezza delimita la
zona come in un far west, un confine sottile e dolorosissimo da vedere per noi
occidentali. Ti viene voglia di fermarti, aspettare che questi muri crollino
come sabbia, immaginando che come per magia gli ammassi di fango si trasformino
in prati.

Il
viaggio prosegue ai bordi della periferia. Si intravedono dal finestrino
bancarelle improvvisate, dove persone vendono frutta e carne per terra, e
clacson improvvisati provengono da apini blu, gli autobus pubblici di qui,
stracolmi di visi sorridenti, dieci o forse venti espressioni diverse che ci
salutano mentre ci avvolge il fumo schizzato e veloce dei tubi di scappamento.
Andiamo piano, ma alla fine un bucherellato ed arrugginito cartello bianco ci
spiazza: Mafuiane. Meta raggiunta.

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