Consapevole di una proposta che apparirà controcorrente rispetto alla narrazione sociale e culturale proposta dal mainstream e dai media generalisti, anche in osservanza del cosiddetto “politicamente corretto”, voglio provare a offrire una visione, in tal senso, probabilmente “scorretta”, non allineata, né conformista. Infatti, mentre è innegabile la diffusione di una violenza a cui viene sottoposta la donna da parte degli uomini – sconosciuti ma a volte dagli stessi partner –, discutibile appare l’ipotesi causale che legherebbe tale agito al genere – e saremmo in presenza di una discriminazione di genere, in quanto andremmo a legare una caratteristica negativa, la violenza appunto, a un’intera categoria, quella maschile – o, più nel dettaglio ad aspetti culturali quali il patriarcato, i ruoli educativi e la paternità.
In realtà, come condiviso da numerosi specialisti in ambito psicologico e pedagogico – cito a questo riguardo, ad esempio, il pedagogista Daniele Novara –, il fenomeno della cosiddetta “violenza di genere” andrebbe compreso quale sottoinsieme di una più ampia manifestazione di aggressività, prevaricazione e violenza che rivela come fattore trasversale quello dei rapporti di forza presenti nei contesti in cui tale agiti si verificano.
La violenza nei contesti relazionali
In tal senso, ad esempio, all’interno dello stesso contesto familiare, accanto alla violenza degli uomini verso le donne, va registrata quella verso i bambini, riguardo alla quale le ricerche indicano che non esistono differenze significative tra la violenza agita dal padre o dalla madre nei confronti dei figli, fino al verificarsi, come caso estremo, degli infanticidi, che vedono protagonista la madre nella quasi totalità dei casi.
Ancora, spostandosi nell’ambito delle relazioni di aiuto, in contesti quali quelli scolastici materni e della scuola primaria, o delle case di cura o per anziani, si registra come il fenomeno della violenza e dell’abuso ai danni degli assistiti non mostra significativa rilevanza riguardo al genere degli aggressori/abusanti, per cui gli atti di prevaricazione e violenza vedono come protagonisti pressoché indistinti tanto i maschi quanto le femmine.
A questo riguardo, come già evidenziato e documentato in un mio scritto di qualche anno fa [Bellantoni D., Aggressività e violenza senza senso. Una lettura analitico-esistenziale della violenza sulle donne (e non solo), in «Ricerca di senso», 15 (2) 2017, 149-166], propongo piuttosto un’interpretazione circa il progressivo aumento della violenza, dell’aggressività e della prevaricazione nei contesti relazionali a quella che Viktor Frankl (1905-1997) – psichiatra viennese, internato in quanto ebreo dal 1942 al 1945 nei lager nazisti – attribuiva, già dalla fine degli anni ’30 del secolo scorso, piuttosto che al genere a una diffusa mancanza di senso della vita. Tale comprensione permetterebbe di non perseguire la cura dei sintomi individuati attraverso una cura sbagliata.
Riscoprire il senso della vita
In effetti, dai tempi di Frankl ad oggi, sembrano essersi enfatizzate le derive liberistiche, capitalistiche e conformistiche alla base della perdita di senso e significati nella vita. In tal senso, un reale antidoto alla diffusa violenza che sembra caratterizzare il contesto contemporaneo sarebbe da ricercarsi in un’educazione al senso della vita, a valori che si pongano come riferimenti che trascendono gli stessi partners di una relazione, di qualsiasi relazione, informata a riferimenti trasversalmente accettati quali il rispetto, la solidarietà, la reciprocità, piuttosto che all’obiettivo della propria affermazione, con particolare attenzione a coloro che nelle relazioni di supporto occupano il ruolo di destinatari dell’aiuto stesso. Tale approccio educativo avrebbe anche il compito di agevolare l’integrazione di aspetti oggi disattesi e che fanno riferimento al cosiddetto codice o ruolo paterno, indipendente dal genere stesso di chi lo testimonia: aspetti cioè legati alle tradizioni, alle istituzioni, alle norme, al rispetto dei ruoli, ecc.
In tal senso, appare auspicabile, innanzitutto un’educazione che recuperi una reale e funzionale alleanza educativa tra donne e uomini, informata da valori realmente trasversali e da un’educazione capace di sostenere una reale e civile convivenza tra le persone, improntata a reciprocità e rispetto.
Va precisato che, in tale dinamica, i giovani vanno considerati più vittime che attori. Questi, infatti, nascono oggi come 50 anni fa e, dunque, non sono loro i “portatori” del virus della violenza, da cui piuttosto vengono “contagiati”, fin dalla nascita, nella società costruita dagli adulti. D’altra parte, è evidente che è soprattutto ai giovani che è affidata la speranza di un’alba di una nuova comunità e di una convivenza solidale tra le persone, a cui gli adulti potranno contribuire incarnando in modo sempre più trasparente e testimoniale quei valori in grado di sostenere una reale, pacifica società.