18 Mar 2016

E vissero felici, contenti (e benestanti)

Presentato il quarto rapporto mondiale sulla felicità. Generosità e libertà dalla corruzione tra gli indicatori vincenti. L'economista Bruni: «Basta guardare il PIL. L’uomo non è solo il suo reddito»

Si chiama World Happiness Report e da quattro edizioni misura il livello di felicità degli stati. Quest’anno a conquistare il podio dei paesi più felici sono stati la Danimarca la Svizzera e l’Islanda; l’Italia si conferma – come l’anno scorso – al cinquantesimo posto preceduta da Uzbekistan, Malaysia e Nicaragua. Il rapporto è stato presentato a Roma in prossimità della Giornata Mondiale della Felicità istituita dalle Nazioni Unite che si terrà il prossimo 20 Marzo 2016.

Ma come si misura la felicità? I dati raccolti dallo studio registrano come le persone valutino la loro vita su una scala che va da 0 a 10. Dalle classifiche, basate su indagini in 156 paesi nell’intervallo 2013-2015, emerge un punteggio medio di 5,1 punti (su 10). I ricercatori hanno individuato sei variabili fondamentali che spiegano (per tre quarti) le variazioni dei punteggi medi, da paese a paese. Queste variabili son il PIL (Prodotto Interno Lordo); l’aspettativa di vita in buona salute; l’avere qualcuno su cui contare; la libertà percepita nel fare scelte di vita; la libertà dalla corruzione; la generosità.

Oltre al PIL, quindi, per misurare il benessere di uno stato bisogna tener conto di altri parametri. «Il PIL è semplice, si presta ai titoli di giornale ma qualsiasi economista sa che non è l’unico dato che possiamo guardare» dice Luigino Bruni, docente di Economia (LUMSA). «Se aumenta il PIL ma aumenta anche la diseguaglianza, il benessere medio diminuisce perché c’è un effetto negativo sui più poveri. Il grande vantaggio di questi studi internazionali è che non ci si limita a studiare numeri ma si parla con le persone. Non si guarda solo la dichiarazione di redditi ma si raccolgono le testimonianze di cittadini, lavoratori, famiglie che raccontano i loro problemi e le difficoltà di tutti i giorni».

Quest’anno – per la prima volta – il rapporto ha misurato le conseguenze delle disuguaglianze (sociali, lavorative, economiche ecc) nella distribuzione del benessere tra paesi e regioni. «Per la prima volta – afferma Leonardo Becchetti, docente ed economista (Tor Vergata) – sono state misurate le diseguaglianze di felicità individuali che poi confluiscono sul livello di felicità nazionale. Uno dei dati che più ci fa riflettere è che oggi i differenziali di felicità tra paesi alimentano furiosi flussi migratori. Le migrazioni sono arbitraggi che non si fanno in finanza ma che fanno le persone sposandosi dolorosamente dal loro paese per cercare di colmare queste differenze. Ecco perché è importante prenderle in considerazione e ridurle».

Tra i sintomi dell’infelicità c’è il lavoro che, sempre più gerarchizzato e competitivo, rende dolorosa l’esperienza di chi arriva per ultimo. O ancora il traffico automobilistico che genera irritazione e nervosismo che poi si ripercuote in tutta la giornata. Insomma sono tanti gli aspetti sui quali gli economisti devono basarsi per stabilire quanto un paese stia bene. «Questi numeri sono dei segnali, sono un inizio di discorso non la fine» aggiunge Bruni. «Ecco perché per compiere scelte politiche bisogna rendersi conto che la situazione è un po’ più complessa e articolata di quanto ci dimostrano i numeri. Complicare l’economia, complicare le valutazioni sull’essere umano perché la gente è molto più ricca di quanto pensi la scienza e la politica economica. È un bell’invito che ci fa questa ricerca!».

condividi su