10 Lug 2015

Ecco come abbiamo alimentato la macchina dell’orrore dell’Isis

In un libro che ripercorre le ore drammatiche dell’attentato a Charlie Hebdo, la direttrice di RaiNews24 ipotizza come giornali e tv di tutto il mondo abbiano alimentato inconsciamente la propaganda dello jihadismo globale. Una macchina dell’orrore dalla quale tirarsi fuori con scelte responsabili

È il 25 Febbraio 2015 quando Monica Maggioni, direttrice del canale RaiNews24, in un video-editoriale dichiara che la propria emittente non trasmetterà più i filmati resi pubblici dal califfato islamico, mostrando solo fotogrammi selezionati. Una scelta che i più hanno definito “censoria” e non in linea col dovere di cronaca dei giornalisti. Altri invece l’hanno reputata una decisione etica per contrastare quella “Hollywood del terrore” in cui tutto il sistema mediatico è ormai immerso.

A pochi mesi di distanza Monica Maggioni racconta nel libro “Terrore mediatico” (Laterza, 2015) le ore strazianti vissute in redazione tra il 7 e il 9 gennaio 2015, quando tutti gli occhi del mondo erano puntati nella Parigi di Charlie Hebdo. Una diretta tv ininterrotta in cui ora dopo ora si alternano agenzie, ospiti, collegamenti grazie ai quali si tenta di dar conto di un attentato simbolico, orchestrato in tutto e per tutto. Nel mirino dell’Isis non c’è solo la redazione di un giornale satirico accusato di aver offeso il Profeta ma c’è l’obiettivo di convertire al jihad quella “zona grigia” – come la definisce Maggioni – di musulmani occidentali che credono nel dialogo e nel confronto con altre religioni e visioni.

Mentre i fratelli Kouachi consumavano la strage dentro la redazione di Rue Nicolas Appert, racconta la giornalista, un’altra operazione prendeva piede attraverso i mezzi di informazione. «Mi sembra di essere completamente piegata all’inevitabilità di questo racconto. Due, forse tre uomini, stanno rivoluzionando le scalette dei telegiornali del globo, stanno costringendo la riscrittura delle aperture dei giornali, si stanno imponendo sulle schermate di tutti i siti Web. Sapevano che colpendo un simbolo, la loro stessa azione sarebbe stata immediatamente proiettata nella dimensione simbolica. Anche il nostro racconto, le mie sette ore di diretta da studio sono esattamente quello che loro volevano».

Su Twitter si creano due poli. A fronte delle centinaia di account che stanno twittando #jesuischarlie, ce ne sono altrettante, uguali e contrarie, che inneggiano, esultano in nome del jihad. Alcuni hashtag impazzano nelle ore dell’attacco: #we_avenged_the_prophet, #lone_wolves, #parisburns. «I jiadisti e i loro simpatizzanti – racconta la giornalista – postano foto, illustrazioni e decine di video dell’azione dei terroristi. In pochi minuti sono già pronti i primi montaggi ad hoc in cui, alle immagini di Parigi, i simpatizzanti e sostenitori aggiungono inni, effetti sonori, versi poetici. Una guerra santa spettacolarizzata e seducente. I codici del “reportage all’occidentale”  vengono traslati e applicati al messaggio del califfo, creando uno scarto narrativo di cui è impossibile non avvertire la potenza. E’ una questione di parole, di tecniche di racconto ma anche di tecnologia: è il risultato dell’impiego di telecamere digitali di facile trasporto e a basso costo ma dalle prestazioni straordinarie, che permettono ai combattenti della guerra santa globale di replicare il modello narrativo occidentale, piegandolo al messaggio del jihad».

Maggioni alterna lo scandirsi dei fatti parigini di inizio gennaio con episodi che lei stessa ha vissuto da cronista di guerra in Afghanistan, Iraq e Iran. «Mentre l’Is nelle sue diverse sigle e definizioni ha continuato a crescere in Iraq, dal 2004 ad oggi, alimentato dallo scontento per uno Stato che ha del tutto rinunciato a integrare la comunità sunnita, il jihadismo globale ha percorso strade originali e, nel tentativo di affermare il proprio messaggio, ha fatto passi da gigante sulla via della narrazione». Con quale scopo? Combattere la “zona grigia” occupata dai musulmani che decidono di vivere in Occidente, di dialogare con altre religioni, di vivere una vita integrata. «I terroristi spingono alla riduzione di una sola identità dominante che porta ad una contrapposizione netta: noi contro loro. Loro contro noi. Logiche che assomigliano però pericolosamente a quelle di alcuni talk show di grande successo».

Da giornalisti, allora, «cominciamo almeno a non diventare strumenti del loro racconto tra fascino e orrore, della loro epica guerresca. Il dibattito si è arenato sulla questione del far vedere o meno le sequenze più crude, o sull’idea che si trattasse di una forma di censura mascherata. Niente di tutto ciò. Si tratta solo di togliere la dirompente forza del racconto dalle mani di sapienti, di chi lo sta trasformando nello strumento più potente di tutti. La narrativa del nuovo regime sanguinario va destrutturata. Poi le notizie, le si dà tutte.  E anche gli appelli di un eventuale prigioniero, se sciaguratamente mai dovesse servire. Ma si sa, non viviamo in un tempo di attenti distinguo. E forse anche i media ne sono responsabili».

Mai come oggi la macchina dell’informazione
associata all’utilizzo delle nuove tecnologiche rappresenta uno strapotere di cui per primi i terroristi si stanno servendo. Il libro “Terrore mediatico” ce lo dimostra invitando gli operatori dell’informazione a porsi davanti a scenari complessi non classificando ingenuamente i protagonisti in “buoni” e “cattivi”. Uscire dalla retorica di un giornalismo neutrale che non esiste, dando spazio, invece, parola dopo parola alla possibilità di capire. E’ una responsabilità di scelta, dice Monica Maggioni, di cui dobbiamo farci carico.

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