El Diez: esaltazione e caduta di Diego Armando Maradona

Dalla baraccopoli di Villa Fiorito alla tossicodipendenza, passando per il tetto del mondo: racconto breve e senza troppe pretese del più umano tra gli dei.

Il calcio non è solo un gioco. A tutti coloro i quali asseriscono il contrario, andrebbe fatta conoscere, se non a fondo a grandi linee, la storia di Diego Armando Maradona da Lanus, in provincia di Buenos Aires. Un uomo fuori dall’ordinario, che un oggetto così apparentemente neutro come un pallone da calcio ha portato all’ascesa, ad uno stato di semidivinità, prima del crollo verticale, inesorabile, fino alla sua morte precoce all’età di 60 anni nello scorso 25 novembre.

 

Dall’altra parte del ponte

Diego nasce a Lanus, il 30 ottobre 1960. Quinto di otto figli, cresce nella povertà assoluta, disarmante, della baraccopoli di Villa Fiorito a Buenos Aires. Diego Maradona Senior, il padre, è l’unico a lavorare e pensa soprattutto a sfamare tutte le bocche di casa. Dieguito, invece, trascorre la maggior parte del tempo in campetti polverosi del barrio, giocando a pallone con i suoi amici. È ovviamente il più bravo di tutti, anche gli altri lo ammettono senza fatica, tanto che un giorno del 1968 Gregorio, uno dei suoi compagni di giochi alla Villa, lo segnala alla squadra giovanile degli Argentinos Juniors. El Goyo, il soprannome di Gregorio, effettua un provino e viene selezionato, ma verso la fine del colloquio dice agli allenatori: “Guardate che alla Villa c’è uno più forte di me”. “Portacelo”, la risposta dei tecnici. Una volta trovati i soldi per prendere l’autobus, Maradona parte verso il campo degli Argentinos Juniors e lascia per la prima volta nella sua vita Villa Fiorito. Per uscire da questo quartiere, bisogna attraversare un ponte che collega la Villa al resto della provincia di Buenos Aires. Pensare che Diego abbia compiuto quel passo per la prima volta per dare il via alla sua carriera da calciatore, fa capire quanto in questa storia il pallone sia stato strumento di riscatto sociale, un volano per la vita di un bambino dal talento smisurato e dalle umili origini.

Il ragazzino Diego nel 1978: Sogno di vincere il mondiale

 

Come Diego è diventato Maradona

Dopo aver completato la trafila nelle giovanili, a 16 anni ancora non compiuti Maradona fa il suo esordio tra i professionisti con l’Argentinos Juniors, club dove rimane fino al 1981. In quell’anno arriva il trasferimento al Boca Juniors, squadra per la quale tutta casa Maradona fa il tifo. L’avventura alla Bombonera – storico stadio del Boca – a causa della grave situazione economica della società dura soltanto una stagione ed il numero 10 viene ceduto nell’estate del 1982 al Barcellona. Tra un’epatite ed alcuni problemi d’ambientamento, anche l’esperienza in blaugrana non è esaltante, fermo restando che è evidente a tutti l’immenso talento del fantasista. Il 5 luglio del 1984 arriva finalmente l’approdo in Italia, a Napoli, grazie agli sforzi economici dell’allora presidente Corrado Ferlaino. Da quel caldo giorno d’estate nasce e vive i suoi 6 anni d’oro il mito di Maradona. La città campana impazzisce per lui e individua nel suo talento un appiglio per il riscatto sociale di un popolo che soffre ancora il gap economico e sociale con il nord del Paese. Gli azzurri, guidati dal diez, leader tecnico ed emotivo di quella squadra, conquistano due Scudetti, una Coppa Uefa, una Coppa Italia ed una Supercoppa Italiana. Tralasciando i successi sul campo, che comunque rappresentano il periodo più florido della storia della società, per capire ciò che Diego Armando Maradona ha rappresentato per Napoli ci affidiamo alle parole di un cantautore e pensatore che come pochi altri ha saputo raccontare la città ai piedi del Vesuvio, Pino Daniele: “Maradona ha rappresentato per Napoli qualcosa di molto importante: è stato il riscatto, il vanto della città. Quello che ha fatto lui a Napoli lo hanno fatto solo i Borboni e Masaniello”. Un eroe popolare a tutti gli effetti.

Nel 1986, con la maglia dell’Argentina Diego porta a compimento un sogno, o una promessa se preferite, esplicitato durante la sua prima intervista quando aveva appena 10 anni: “Ho due sogni: giocare un Mondiale con l’Argentina e vincerlo”. L’edizione della Coppa del Mondo in Messico viene dominata dall’albiceleste, con Maradona mattatore assoluto. Rimane celebre la partita vinta contro l’Inghilterra nei quarti di finale, grazie proprio ad una doppietta di Diego. I rivali britannici, avversari fuori dal campo 4 anni prima della Guerra delle Falkland, vengono stesi da due suoi gol che rimangono nella leggenda del calcio: la Mano de Dios ed il “gol del secolo”. In soli 90 minuti Maradona sintetizza ciò che è: genio e sregolatezza. A chi gli chiede conto della rete segnata anticipando il portiere con la mano sinistra, lui risponde: “Chi ruba ai ladri – gli inglesi in questa occasione, rei secondo el pibe de oro di aver sottratto le isole Falkland al suo popolo – ha 100 anni di perdono”. Napoli e la Juventus da una parte, l’Argentina e l’Inghilterra dall’altra, Maradona è diventato il più umano tra gli dei quando ha avuto modo di rappresentare qualcuno “contro”.

 

 

L’angelo caduto

Quel salto fatto per arrivare a prendere la palla con la mano contro l’Inghilterra può metaforicamente rappresentare la sua carriera, con l’apice nella seconda metà degli anni ’80, ma la caduta all’inizio del decennio successivo è tra le più fragorose. Siamo nella stagione 1990-91, da anni ormai la dipendenza di Maradona alla cocaina è il segreto di Pulcinella a Napoli, tutti lo sanno ma nessuno lo dice pubblicamente. La società avrebbe voluto liberarsi del campione già un anno prima e anche lui, avendo ormai rotto definitivamente con Ferlaino e con la dirigenza, lascerebbe volentieri l’Italia. Cederlo però porterebbe ad un’insurrezione popolare e Ferlaino lo sa. In molti sostengono che il test antidoping organizzato nel marzo 1991 fu deciso dalla società stessa, per cogliere in flagrante Diego. La verità, probabilmente, non si saprà mai. Sta di fatto che, con la positività di Maradona alla cocaina, anche il Napoli si libera di un problema non da poco sul come gestire l’uscita del campione.

Come detto, in città era ben nota la sua dipendenza dalla droga, nata a dire il vero già nel 1982 ai tempi del Barcellona. A saperlo era certamente la Camorra, che per anni ha usato la debolezza dell’uomo Maradona per ricattarlo ed averlo a sua disposizione in ogni momento. In uno dei documentari sulla sua vita si racconta di come il 10 veniva prelevato da casa sua anche in piena notte, per partecipare a feste private organizzate da boss o loro parenti nei quartieri di Napoli. Maradona era consapevole di non potersi sottrarre e accettava. Da quel test antidoping in poi ha inizio il suo declino, culminato con la positività all’efedrina durante i mondiali di USA ’94. Da quanto si sa Diego con gli anni riuscì a disintossicarsi a più riprese, ma le sue condizioni di salute vennero pregiudicate per sempre dai suoi molteplici vizi, portandolo ad una morte precoce per insufficienza cardiaca il 25 novembre scorso a Tigre. Nel tempo si è sempre condannata la sua condotta di vita, ma forse non ci si è mai concentrati sul portare avanti una tesi difensiva. La difesa di un uomo fragile, che forse non ha retto il peso del suo stesso personaggio, la sua risonanza mediatica, l’affetto ed il calore della gente che in certi momenti diventa oppressione ed impossibilità di vivere attimi di vita normale. Ai tempi del Siviglia, nel 1992, Maradona rilasciò un’intervista ai microfoni della Rai, ammettendo una grande verità, forse troppo spesso sottovalutata: “Quello che ho fatto lo so che è stato un errore. Il mio non era un drogarmi per giocare a calcio, ma per scappare dal calcio”. Lo stesso pallone che gli aveva aperto la strada per uscire da Villa Fiorito, innalzandolo ad una gloria eterna, era stato in grado di schiacciarlo. Uno strumento che nessuno come lui sapeva ammaestrare all’interno del campo verde, si era impadronito della sua vita. In campo Maradona faceva godere, fuori Diego soffriva.

 

 

Il dubbio da sciogliere

Nato a vent’anni di distanza da Pelé, Diego Armando Maradona ha trascorso la sua carriera cercando di dimostrare di essere il miglior calciatore della storia. Dal momento in cui tutti videro le gesta del diez, nel mondo del calcio partì un infinito dibattito: Maradona o Pelé? Chi tra i due è stato il più grande di tutti i tempi? Uno brasiliano, l’altro argentino, simboli di due paesi calcisticamente e non da sempre in grande conflitto. Una diatriba accesa anche da varie frecciatine che i due, nel corso degli anni, si sono lanciati a vicenda. La soluzione al dilemma è la più semplice: non si sa. Fondamentalmente, ognuno è libero di scegliere il suo preferito e qualsiasi risposta sarà quella giusta. Perché se Maradona o Pelé lo decidi tu in base a chi sei, dipende dal tuo modo di vedere il mondo e la vita. Da una parte O Rei – appellativo di Pelé – dall’altra D10S. Il primo un professionista esemplare, una macchina da guerra in grado di segnare più di 1000 gol, anche se la FIFA gliene riconosce poco più di 700. Il brasiliano è sempre stato mediaticamente esemplare, composto, un uomo perfetto anche per sviluppare il sistema-calcio, un prodotto vendibile e gradevole. Dall’altra parte delle Cascate dell’Iguazú – il confine tra Brasile e Argentina – un genio ribelle, un fenomeno rivoluzionario, sempre e comunque dalla parte di chi è “contro”. Con Che Guevara tatuato sulla pelle, l’odio verso Giovanni Paolo II, i suoi vizi e le sue debolezze contrapposte al carisma di chi ha saputo ergersi a capo-popolo di due realtà – Napoli e l’Argentina – così vicine e lontane allo stesso tempo. Poesia tra i piedi, guerra e tribolazione nel cuore. Fate la vostra scelta. Di certo non sbaglierete, ma capirete chi siete.

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