Quando sosteniamo che uno «sta
a guardà er capello», ce l’abbiamo con chi solleva questioni per un’inezia,
evocando – anche senza dirlo – la pagliuzza e la trave del Vangelo. Ma se al
capello facessimo attenzione anche fuor di metafora, ci potremmo accorgere di
quanti nuovi tipi di capelli esistano (oltre che dei piccoli segnali delle
grandi mutazioni antropologiche, svelati dal linguaggio).
Nell’usare lo shampoo, noi
– che siamo cecati – non badiamo
all’etichetta: quello che c’è, c’è. È solo al supermercato, sugli scaffali dei
prodotti per il corpo, che ci rendiamo conto di quanto gli umani siano diversi
tra loro e di quanto gli shampoo se
ne siano accorti per primi. Perché, se un tempo il mondo era diviso tra capelli normali
e capelli “con disturbi di comportamento” (grassi, secchi o ricci), ora le
categorie si sono fatte più sofisticate.
Ad esempio, la dicitura «capelli grassi» è pressoché scomparsa.
Che fosse offensiva? Che inducesse alla depressione? In effetti sembrava una
condanna a vita: così quel «grassi»
s’è trasformato in «tendenti ad
ingrassarsi» o «rapidi ad
ingrassarsi». Espressioni più rispettose, meno razziste. Che non solo non
marchiano, ma tolgono il senso di colpa, riversandola sulla natura (come quando si dice che uno è grasso «perché ha le ossa grosse»). E danno felicità perché traghettano
verso un futuro da cigni, dopo tanti anni da brutti anatroccoli.
Allo stesso modo i capelli ricci, un tempo bollati come «indomabili», ora sono passati a essere «perfetti» o «irresistibili»: qualità da vincenti, non da sfigati, associate al
bello che seduce. E persino le vituperate «doppie
punte» si sono evolute in «punte a
lieto fine».
Non sappiamo se compiacerci dell’evoluzione del linguaggio, che
attinge al valore cristiano della recuperabilità. Se sorridere per il mondo
nuovo promesso da imbonitori nuovi. O se vergognarci un po’ quando, tornati a
casa, scopriamo di usare ancora lo shampoo
per famiglie.