“L’esperienza è puro dolore”;
questa la frase cult della vicenda, che vede protagonisti alcuni scalatori dell’Adventure
Consultants, protagonisti
del film Everest di Baltasar
Kormákur. Film d’apertura alla 72esima Mostra del Cinema di Venezia, Everest parla di una storia vera,
ambientata sulle pendici dell’Himalaya nel 1996, costata la vita a otto persone
e raccontata dal giornalista Jon Krakauer nel saggio Aria
sottile (Into Thin Air) del 1997.
Come ogni disaster
movie che si rispetti, anche qui a farla da
padrone sono le inquadrature mozzafiato e la magniloquenza scenografica, che
impreziosiscono la drammatica vicenda. Nato in Islanda, dove la natura è dilagante e potente,
Kormákur mostra anche in questa pellicola la sua disinvoltura con ghiacci e
bufere, una familiarità che gli ha permesso di muoversi con agio anche in set
posti ad alta quota (le riprese sono state fatte in Nepal, negli Studios di
Cinecittà, sulle Alpi e nei Pinewood Studios). I personaggi protagonisti della
vicenda sono tantissimi e forse sarebbe stato meglio dare più spessore e
personalità almeno ad alcuni, soprattutto a quelli femminili.
Un film girato in
maniera classica, senza fronzoli e che lascia trasparire la maestosità e la
pericolosità della natura dove, in particolare nella famosa zona della morte, ad una temperatura
rigida si unisce la mancanza di ossigeno. In questa pellicola dalla crescente suspence e dalla mancata retorica, si
staglia la figura cristica della guida Rob Hall (interpretato da Jason Clarke) che si contrappone a
quella stravagante e trasgressiva di Jake
Gyllenhaal, nei
panni di Scott Fischer. Ottima la fotografia e il montaggio in Everest, che oltre al rappresentare una
natura maestosa, evidenzia quell’agire dell’uomo in una società in cui non
sembrano esserci limiti (It’s not the
altitude but the attitude dice la guida Scott Fischer). Nessun limite per i
numerosi accampamenti commerciali alle pendici del monte più alto del mondo come
anche per chi, mosso dalle diverse frustrazioni lasciate a casa, viene per
sfidare se stesso oltre alla montagna.
Gli scalatori che stanno per
intraprendere questa avventura sono poi accomunati da una domanda a cui non
sanno dare risposta: perché farlo?. Una
riflessione va in particolare al personaggio di Drug, che ha voluto a tutti i
costi salire in cima senza avere i tempi adatti a farlo, sempre per amor
proprio, mettendo a repentaglio anche la vita della sua guida. Così è nella
lotta per la sopravvivenza che si riscoprono i valori veri, l’amicizia, l’amore per
la famiglia ma soprattutto per il prossimo. Dinanzi all’accettazione di una
natura a volte matrigna, come direbbe Leopardi, si affianca però la stoltezza
umana; il regista, infatti, sembra
suggerire una critica contro la commercializzazione turistica dell’Everest, a
cui possono accedere anche coloro che non sono preparati fisicamente e
psicologicamente alla scalata. Le spedizioni sono aperte a tutti (se
puoi pagare 65 mila dollari) e, dopo 40 giorni di allenamento ai piedi della
montagna, sei pronto a salire in cima. Ma è sufficiente questo per affrontare
un’esperienza così impegnativa?
E poi, come accade spesso nella vita, il momento peggiore arriva
inaspettatamente: non è tanto nella faticosa salita che gli scalatori perdono
la vita, ma nel tornare indietro, una volta che la meta è stata raggiunta. E
anche qui colui che inizia la sua avventura con arroganza, ovvero il texano
Beck, e che ammette di aver paura, è l’unico che sopravvive. Così riflettiamo
sul potere a volte salvifico di questo istinto atavico e di come,
paradossalmente, sia la nostra debolezza e la umanità a farci vincere le sfide.