Crude. E non possiamo definirle diversamente le immagini della decapitazione di Steven Sotloff diffuse qualche giorno fa in un video sulla rete, a meno di un mese da quelle in cui protagonista era stato James Foley. Due fotoreporter americani prima sequestrati e poi uccisi davanti a tutto il mondo dall’Isis, il gruppo fondamentalista islamico che in queste ore fa tremare l’intero occidente. Poi Simone Camilli, un altro giornalista italiano (lavorava per l’Associated Press) ucciso lo scorso 13 Agosto a Gaza durante un’operazione di sminamento. E ancora Andrei Stenine (agenzia di stampa russa Ria Novosti) fotografo russo scomparso dal 5 Agosto la cui uccisione è stata confermata ieri. Cronisti che quotidianamente rischiano la vita per portare a casa una foto, un articolo o un servizio editoriale. Ma quanto viene valorizzato il loro lavoro? Quanto merito viene riconosciuto a questi reporter che per vocazione o esigenza partono per questi Paesi? Molto ma solo quando passano a miglior vita.
A poche ore dalla pubblicazione del video di esecuzione di Steven Sotloff, Radio Vaticana ha intervistato Marco Longari, 48 anni, fotoreporter italiano dell’Agence France Press (AFP). Per anni Longari ha vissuto a Gerusalemme e da poche settimane ha lasciato Gaza per spostarsi in Sudafrica. «E’ stato un anno terribile per la comunità dei giornalisti – afferma Longari. E’ che ciò che noi rappresentiamo diventa una spina nel fianco in persone che hanno perso il lume della ragione. Ormai la qualità dell’essere umano è talmente scaduta in alcuni angoli del mondo che chi invece come noi è lì per raccontare l’umanità, è per loro fumo negli occhi. Insomma, più uno cerca di dare un volto umano alle cose che succedono, più la barbarie aumenta e il volto umano viene sfregiato con atti riluttanti». Parla del collega italiano Camilli che conosceva bene. «Abbiamo condiviso tante esperienze di lavoro. Simone era tutelato dall’agenzia per cui lavorava. Ma quante volte sulla stampa vengono pubblicate foto di colleghi che scompaiono prematuramente e tragicamente sul lavoro e fino a quel momento si era assolutamente all’oscuro della loro esistenza e del loro lavoro! Mi spiace quando viene strumentalizzato un incidente, un rapimento, la morte.Celebrare la loro assenza quando fino ad allora sono stati rifiutati dalle redazioni o ignorati è triste».
Quello di fotoreporter in zone di guerra è un mestiere che comporta rischi ma che da l’opportunità di raccontare storie da vicino. «Non bisogna pensare che questo lavoro sia semplicemente esporsi ai rischi. Da un alto è una cosa importante da sapere per cui bisogna calcolarlo il rischio di rimetterci la pelle. Ma questa non è l’essenza del lavoro. L’essenza è andare vicino alla gente e raccontare le storie. Questo presuppone che ci si assuma a priori un certo rischio. Ma il rischio non è tanto la bomba che ti può cadere sopra la testa bensì prendersi la responsabilità di raccontare. Il pressapochismo cui accennavo è proprio evitare di assumersi questo rischio, che è davvero il più alto di questo mestiere». E poi c’è l’Italia, paese che più degli altri, non valorizza il lavoro dei fotoreporter mercificando a basso prezzo i loro lavori editoriali. «Siamo uno dei pochissimi paesi al mondo a non mettere i crediti sotto le foto. Abbiamo una tradizione di professionisti assolutamente degni di questo nome, che fanno questo lavoro seriamente. L’Italia è la culla di un certo tipo di fotogiornalismo. Eppure in Italia le fotografie sui giornali ci stanno come i semafori nelle strade, per dirti dove devi girare la pagina. Non c’è uno spazio intelligente per l’informazione fotografica. D’altra parte non c’è nemmeno una cultura di ricercatori iconografici».
Infine Longari critica la scelta di molte testate di aver diffuso eccessivamente le foto e il video di Foley. «Osservare la decapitazione di un giornalista per la mano di un brigante qualunque presuppone una responsabilità. Bisogna sapere che facendo clic dai spazio dentro di te a quel cancro che questa gente cerca di diffondere. Trovo criminale la foto di Foley sbattuta su tutti i giornali in prima pagina. Ma purtroppo ciò corrisponde alla deriva in cui vivono alcune testate giornalistiche, che invece dovrebbero essere l’ultimo bastione di una comprensione logica delle cose. Non c’è nulla di umano nel mettere la foto di Foley in prima pagina con il coltello alla gola».