Arte e fede si intrecciano nelle opere e nel pensiero di fratel Sidival Fila, frate minore francescano e artista, ora anche Padre Guardiano del convento di San Bonaventura al Palatino di Roma. 55 anni, di origine brasiliana, ormai artista affermato, mi riceve nel suo studio sul colle romano, in un ambiente che profuma di estro, operosità e ricerca.
Sul grande tavolo da lavoro, su cui balena la luce del finestrone dal quale si vede tutta Roma, fanno capolino alla rinfusa scampoli di stoffe antiche, rocchetti di seta, ritagli di giornale, cianfrusaglie varie e antichi pentagrammi. Tanti elementi che fr. Sidival annoda insieme per suonare la sua musica, diretta con ago e filo, e creare così opere di stoffa, acrilici e fili, sapientemente uniti in un’armonia di colori e affascinanti giochi di volume.
Qual è stato il tuo primo approccio al mondo dell’arte?
Quando ero ragazzo vidi un’opera d’arte contemporanea nel mio Paese e mi aveva suscitato tanta curiosità e interesse e mi sono detto: ma allora è possibile farlo! Non posso farlo anche io? Ho comprato una tela e ho cominciato a creare. Sono sempre stato attratto dall’arte in senso lato, dai primitivi italiani del Quattrocento al Rinascimento, al Barocco, ma anche l’Impressionismo, il Cubismo. Ma cominciando a dipingere, nutrivo quel desiderio di essere un po’ surrealista, espressionista, e vedevo che corrispondeva alla mia personale lettura della realtà, al modo in cui vedevo il mondo. Mi sono subito concentrato verso quell’ambito, non ho mai avuto la passione per il disegno figurativo. Quando ho creato paesaggi era sempre con una lettura espressionista.
Poi, al di là delle tue inclinazioni, come sono andate le cose?
Dopo aver fatto il militare mi sono spostato a San Paolo per studiare arte. È una città molto ricca d’arte, offre tante opportunità con eventi e mostre, anche temporanee. La passione aumentava fino a che mi portò in Italia, che per me era tutto. Mi dicevo: vado in Italia, vivrò finalmente in questo ambiente culturale in cui posso avere la possibilità di stare in contatto con l’arte. Non avevo grosse ambizioni sullo sviluppo del mio lavoro, più che altro avevo desiderio di vivere in un ambiente in cui l’arte era presente. Dopo cinque anni da autodidatta e in cui frequentavo musei, durante il quale ho fatto poche opere, forse cinque o sei, mi sono sentito comunque arricchito.
È in questo periodo che hai pensato anche di diventare frate?
Sì, infatti nel frattempo ho iniziato il cammino vocazionale e ho abbandonato l’arte per più di diciotto anni, per riprenderla poi in modo molto semplice. È venuta fuori, è emersa senza troppe attese o pretese. È nata semplicemente come desiderio di cominciare a fare delle cose.
Come definiresti la tua arte?
Non voglio inquadrarla in una corrente pittorica del Novecento. Riconosco che nel mio lavoro c’è un contatto con l’arte informale, con lo Spazialismo o l’arte povera e mi sento inserito in questo ambiente culturale. D’altra parte non c’è stata un’ispirazione, ma un ritrovarmi in questo tipo di sensibilità come tendenza innata, già prima di conoscere Burri e altri artisti. In particolare sento una forte sensibilità verso la materia e credo che la materia sia capace di comunicare emozioni di per sé. Per me il compito dell’artista è quello di mostrare agli altri ciò che già c’è, piuttosto che creare altro. Un po’ come Giovanni Battista, che non è la Verità ma la indica.
In che relazione sta l’arte con la tua vocazione?
Molti pensano che, essendo il mio lavoro piuttosto metodico e sistematico, sembra quasi una preghiera, fatta di gesti ripetuti all’infinito. Per me non è tanto questo, e non è neanche neanche il tentativo di trasmettere in modo obiettivo la fede. Non credo che possiamo scindere ciò che io sono come uomo e come religioso. E siccome tutti noi siamo il risultato delle relazioni che avvengono tra noi e l’altro, tra noi e Dio, allora io sono ciò che sono, il che è frutto di questi incontri. In qualche modo nelle opere parlo della mia visione della fede o della visione cristiana della realtà perché incarno dei valori, come restituire all’arte una sua spiritualità. Ma questo non è un pensiero cosciente, cioè non decido di parlare della pace facendo un quadro bianco ad esempio, piuttosto credo che l’arte se è vera è già spiritualità, allora non bisogna essere credenti per fare un’opera d’arte spirituale.
L’arte parla di Dio?
Più che altro ha la possibilità di essere trascendente. Non parla di Dio direttamente, non è una Rivelazione, ma mette l’uomo in contatto con una dimensione del proprio sé che va oltre la materia. In senso stretto può essere propedeutica a un annuncio, e in senso lato mette in contatto con quella parte del nostro essere che non si accontenta della materialità.
Potresti spiegarmi meglio questo concetto?
Pensa a una persona che, ascoltando una musica Samba, comincia a muovere il corpo in passi di danza, o a un’altra che ascolta Bach e chiude gli occhi per entrare meglio in contatto con la dimensione dello spirito. L’arte fa proprio così. Ci sono cose come la pittura, la poesia, la musica, che hanno il potere di aiutare le persone a contattare un oltre dove vivere la trascendenza.
È la stessa impressione che ho avuto guardando alcune tue opere.
C’è questo desiderio legato all’immagine, che da una parte crea un invito ad essere conosciuta, ma l’immagine può essere anche illusione e non ci si accontenta delle illusioni. Come quando conosci una persona, per conoscerla bene occorre parlare con lei. Spesso davanti a un’opera le persone si chiedono cos’è? cosa vorrà dire? che significa? Ma l’oggetto parla in quanto tale, non perché debba necessariamente significare qualcosa. La grande illusione è pensare di conoscere perché so che cosa è, ma ad esempio posso restare estasiato da un paesaggio visto da una grandissima altitudine, senza sapere in realtà cosa sia. Come in questo caso, non ho bisogno di definire per lasciarmi guidare dalla sensazione della bellezza indefinita, la stessa cosa avviene con l’arte astratta. Ti trovi davanti a macchie di colore o a forme che ti lasciano intuire che c’è una composizione, un’armonia, magari frutto del tempo come i tessuti antichi di trecento anni, che utilizzo nei miei quadri, che diventano testimonianza di cui in qualche modo viene percepita la ricchezza. Così la materia è capace di essere espressiva e memorizzare tempo e spazio creando in qualche modo un proprio sé. D’altronde anche la fisica quantistica ce lo dice. Noi percepiamo questa memoria e questa evidenza, e diventano emozioni. Quindi non credo tanto che ognuno veda quello che vuole nei miei quadri, quanto che ciascuno è libero di creare una relazione libera con l’oggetto che diventa così totalmente unica e originale.
Chi è l’artista che ha saputo meglio rappresentare Dio?
Spesso si confonde il soggetto sacro con l’arte sacra. Un quadro che raffigura una Madonna non è necessariamente arte sacra, il soggetto è sacro, ma la tecnica magari non lo è. Magari un quadro astratto potrebbe essere più sacro perché rimanda al divino meglio di un’opera che rappresenta il divino. Ci sono esempi in cui l’arte è davvero spirituale e riproduce un soggetto sacro. Vedi le opere di Antonello da Messina, al di là del soggetto che è Cristo: si nota una tale spiritualità e capacità di introspezione, in maniera così profonda che parlano del divino per la rappresentazione del volto di Cristo, ma soprattutto per come le ha concepite. È pura spiritualità, pura luce, pura bellezza. Anche Caravaggio meraviglia, non perché riesce a riprodurre la realtà, ma perché in quella realtà mette un qualcosa di divino. Si tratta di uno sguardo metaforico sul mondo – che è ben diverso dall’idea iper-realista – come Leonardo da Vinci che dipinge Monna Lisa avendo uno sguardo metaforico. Cioè non è semplicemente somigliante al soggetto, come si presuppone, ma l’artista non vuole riprodurre la realtà: può cogliere delle similitudini, poi deve metterci del proprio. Così la magia di Monna Lisa va ben oltre la rappresentazione del soggetto, Leonardo è riuscito a catturare anche la sua personalità.
Dio è un artista?
Dio è Creatore, è oltre l’arte che invece è un processo in divenire. Dio è perfezione, non ha bisogno dell’arte. Il tramonto non è un’opera d’arte, va ben oltre l’arte. L’arte serve all’uomo per risignificare il mondo e la realtà, Dio non ha bisogno di questo. Succede qualcosa di simile nell’avvicinare la Parola di Dio che è sempre la stessa, ma la comprensione delle persone cambia. La stessa cosa avviene nella differenza tra arte e icona dove quest’ultima è già la meta di riferimento, la realtà oltre, anche se in chiave metaforica, mentre l’arte è una rappresentazione meramente umana. Davanti a una Madonna del Botticelli nessuno direbbe un’avemaria.
Cosa consigli a un giovane che si avvicina all’arte?
Imparare ad ascoltare. Un quadro non lo si vede ma lo si ascolta. Il vedere si basa sempre sulla proiezione dei propri schemi, mentre ascoltare presuppone che sono disposto ad imparare qualcosa. Davanti a una musica, a un quadro o una poesia dovremmo tutti metterci da parte. Poi verrà il momento di fare, ma se subito vedo quello che voglio vedere, in fondo resto imprigionato in me stesso.