«In Rai abbiamo restituito a ciascuno le proprie responsabilità». A due mesi dall’approvazione in Parlamento della riforma della Rai e a pochi giorni dalla nomina dei nuovi direttori di rete, torna a parlare il sottosegretario alle comunicazioni Antonello Giacomelli intervenendo alla scuola di formazione socio-politica organizzata dai Gesuiti de La Civiltà Cattolica a Roma.
«Appena ci siamo insediati abbiamo trovato una Rai ingessata tra la politica e la gestione dell’azienda. Quel bene comune, cardine del servizio pubblico, era più una somma di interessi particolari rispetto a quelli della collettività. Con la politica c’era un osmosi continua e non c’era nessuna attitudine alla capacità e al ruolo di chi doveva essere nominato. C’erano redazioni interne dove il 20% erano redattori e l’80% graduati. Ciò che abbiamo ottenuto con questa riforma è restituire a ciascuno la propria responsabilità: il Consiglio di Amministrazione imposta le linee guida e approva i bilanci, l’amministratore delegato ha la responsabilità dell’azienda e ne risponde e, infine, il Parlamento, ha solo il compito di controllare (non a caso la commissione composta dai parlamentari è detta “di vigilanza”)».
Secondo Giacomelli la riforma non ha riguardato solo i meccanismi di nomina ma «ha tracciato le linee guida per un rinnovamento generale del servizio pubblico». In primis un cambio di rotta dell’informazione. «Ancora oggi – riferisce il sottosegretario – le testate di informazione Rai sono lo specchio dell’accordo politico che nel 1975 siglarono i tre più grandi partiti dell’epoca (a ciascuno la sua testata di riferimento). Occorre quindi un nuovo piano editoriale che riduca il numero di redazioni e riesca a sintonizzarsi con la collettività. L’informazione del servizio pubblico deve essere in grado di dare la verità? No. Il compito del servizio pubblico è dare ai cittadini gli strumenti per comprendere la realtà e gli avvenimenti che lo riguardano facendo accrescere la consapevolezza. Deve fornire chiavi di lettura all’interno di un flusso di notizie in cui è difficile discernere».
Un’altra sfida che l’azienda deve affrontare è quella di internazionalizzare i propri prodotti. «Il 90% dei prodotti Rai (come le fiction) non varcano le Alpi e vengono pensati solo per il mercato interno. Ma dentro una grande competizione globale – dove il web gioca d’attacco – l’azienda non può permettersi di restare immobile. Se noi non siamo in grado di stare al passo, fornendo gli strumenti della modernità, rischiamo di scadere in un modello americano che diventa espressione culturale. Ma il condizionamento culturale è un rischio».
«Rai deve prendere atto che esiste Internet. Se muore Ettore Scola, un giovane va su YouTube a guardare i suoi film, non certo sul portale Rai. Ma le Teche Rai hanno un patrimonio straordinario in questo senso e vanno digitalizzate e rese fruibili nello stesso modo con cui fruiamo i contenuti su YouTube. Oggi i portali web della Rai non sono all’altezza di soddisfare queste esigenze».
Infine il sottosegretario si è soffermato sulla questione ascolti. «Non mi convince la contrapposizione share-qualità. Non tutti i programmi con un basso share sono per forza di qualità o al contrario. Non c’è un misuratore del rapporto con il cittadino. È necessario che quest’ultimo riesca ad avere ciò che chiede. Per le news abolirei lo share, perché non è da quell’indicatore che misuriamo la qualità dell’informazione. Anzi lo share rischia di alterarla. Penso che l’informazione in Rai debba imporsi per autorevolezza e non per ascolti».