«Dio c’è». È stata una delle prime
scritte infestanti, apparsa sui cartelli stradali quando i graffitari non erano
ancora manco spermatozoi.
«Dio c’è». Un atto di fede secco, «asseverativo ma poco probativo» avrebbe
detto un insegnante. Ma,
se «Dio c’è», da qualche tempo
qualcuno aggiunge: «Quale?».
È
il destino dell’affermazionismo: le frasi lapidarie, dogmatiche, troppo sicure
di sé, provocano. E inducono ad attaccare una coda. Che può essere innocua («Dio c’è. A volte basta bussare»), ma
più spesso è velenosa: da «Dio c’è… ma
non si impegna» a «Dio c’è.
Telefonare ore pasti», da «Dio c’è. O
ci fa?» alla bellissima «Dio c’è. Ma
non sei tu. Rilàssati».
Il
negazionismo, che è una reazione all’affermazionismo, ha prodotto persino una
leggenda metropolitana, secondo cui la scritta «Dio c’è» indicherebbe “droga nei paraggi” (sarebbe l’acronimo di «Droga In Offerta: Costi Economici»). E
non sono poche le battute che irridono tutto ciò che ha a che fare con la fede.
Da «Tutti noi abbiamo bisogno di credere
in qualcosa. Io credo che tra un attimo mi farò un’altra birra» (letta su
una t-shirt) a «Non solo Dio non esiste,
ma provate a trovare un idraulico la domenica!» (Woody Allen).
La
fede va resa semplice, ma, se non tocca il cervello e il cuore, è anche semplice
buttarla in vacca. Ha senso dire che «Dio
c’è», senza raccontarne i gesti e le parole? Senza trasmettere la gioia di
credere in un Dio che è padre nostro?